Il mio unico talento è sempre stato salire sugli alberi: prove di precipizio per un cervello ribelle
Oggi sono salito su un grande albero di noce. Non lo facevo da più di 50 anni. Tra i rami di un noce mi andavo a nascondere quando ero bambino e ci passavo ore. Anche da ragazzo salivo sugli alberi, solamente perché era bello starci abbracciato in alto tra le fronde. Ho provato a farci salire Tommy su un albero, un paio di anni fa. Gridava aiuto ed era restato appeso a metà come un crocifisso. Oggi mentre salivo sentivo che non era più come una volta, pensavo che se fossi caduto i miei figli non avrebbero più potuto contare su di me. Da ragazzo non ci pensavo, salivo ovunque, saltavo da qualunque altezza, feci anche il paracadutista sportivo. Allora di spiaccicarmi a terra non me ne sarebbe importato molto, o meglio non era un pensiero che mi attraversasse il cervello.
Non correvo bene, ero imbranato o per lo meno tale mi sentivo. Il mio unico talento era salire sugli alberi, una sfida individuale che mi appassionava nei lunghi pomeriggi solitari. In particolare salivo fino ai rami più alti di un noce che affondava le radici in un fosso dove scorreva acqua di scolo di campi coltivati a grano o erba medica, a seconda degli anni. Immaginavo che tra quelle fronde fosse la mia casa, ci portavo libri e piccoli oggetti che tenevo in una scatola incastrata in una forcina tra due rami (…)
Di storie me ne sono raccontate sin da bambino. Ora le racconto agli altri, ma allora che ero molto timido era il mio gioco preferito. Salivo su un albero e mi raccontavo storie di cui ero protagonista, belle avventure con scenari che costruivo servendomi di supporti concreti, come le foglie di quello stesso albero, la corteccia, le ghiande o altri frutti. Il mio videogame, infatti, era in prevalenza a componente vegetale.
Vivevo in campagna e non era difficile raccontarsi storie con la faccia a terra, rasente ai cretti dei campi di pomodoro, nei tramonti d’estate in cui ci si poteva confondere tra gli odori decisi di quel bel terriccio rossastro e scaldato dal sole. Sento ancora l’aroma pungente dei gambi delle piante di pomodoro, l’odore aspro del verde che ti fa vibrare di solletico le narici, finché arrivava il profumo della polpa dei Sammarzano maturi, tutto concentrato nel loro culmine appuntito, come se da quella specie di beccuccio trapelasse quanto serviva per la rituale preparazione e imbottigliamento della salsa in quantità quasi industriale. ( “Io figlio di mio figlio”; Mondadori 2018)
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