Carlo Zinelli: la folle arte di un sublime cervello ribelle
Nella settimana di Art Verona le opere di Carlo Zinelli sono ritornate in città, luogo dal quale tutto è iniziato più di sessant’anni fa. Nacque nel 1916 a San Giovanni Lupatoto, si trasferì a Verona a diciotto anni lavorando come addetto al macello comunale fino all’arruolamento nell’esercito e alla partecipazione come barelliere alla guerra civile spagnola. Venne rimpatriato dopo solo due mesi, ciò che aveva visto lo aveva profondamente segnato, delirava, faceva prediche ai morti. Nel 1941 venne ricoverato nell’ospedale psichiatrico militare con diagnosi di schizofrenia paranoide e a questo seguirono altri ricoveri fino a che venne definitivamente internato presso l’ospedale psichiatrico di S. Giacomo della Tomba a Verona.
Il sito ufficiale dedicato a Carlo Zinelli
La sua fortuna è legata a due uomini: Michael Noble e Vittorino Andreoli. Il primo era uno scultore scozzese, con una meravigliosa villa sul lago di Garda. Aveva il vizio di bere troppo e quando era ubriaco, faceva cose incredibili; allora la moglie lo portava all’ospedale psichiatrico affidandolo alle cure del dott. Trabucchi. In una di queste occasioni il medico gli fece vedere la parete esterna di un padiglione sulla quale Carlo aveva fatto dei graffiti con un pezzo di mattone che aveva raccolto da terra. Era stato per questo legato ma, quando veniva liberato, riprendeva laddove aveva lasciato.
A sentire questo, Noble si arrabbiò e ordinò che venisse subito slegato e lasciato libero di esprimersi. D’accordo con la moglie, finanziò la costruzione di una casetta dentro il parco, con cinque tavoli da disegno da una parte per gli uomini e cinque dall’altra per le donne. L’atelier era frequentato assiduamente da quattro-cinque degenti, e tra questi Carlo; vi lavoravano volentieri, dalla mattina alle 7 fino alla sera, con una pausa per il pranzo e nel giro di sette mesi produssero una quantità tale di opere da poter allestire una prima mostra, inaugurata il 2 novembre 1957, alla galleria La Cornice di Verona con un catalogo presentato da Dino Buzzati. A questa ne seguì un’altra a Milano nel maggio 1958 sulla quale Alberto Moravia scrisse: Venendo alle opere di questi singolari pittori, penso che bisogna distinguerle in due categorie: quelle, diciamo così, normali, di cui non si penserebbe mai che sono state dipinte da dei malati di mente e che si possono far risalire facilmente a qualche scuola o tendenza moderna; e quelle, diciamo così, anormali, le quali rivelano chiaramente un’origine demenziale. Ma tanto le prime che le seconde hanno un valore artistico notevole.
Il secondo incontro fortunato di Carlo avvenne nel 1959 con Vittorino Andreoli, allora studente appena uscito dal liceo, che aveva deciso di frequentare l’ospedale psichiatrico. Il direttore lo destinò alla casetta a seguire il gruppo di artisti matti. Nella stanza dell’atelier ci sono con lui cinque o sei pittori ma è come se non esistessero. Egli parla semmai con se stesso, con i suoi fantasmi interiori: talora ride, talaltra si inquieta. Una dinamica chiusa dentro il suo corpo fragile, abbigliato in modo strano.
La sua giacca è piena di oggetti: disegni ripiegati, sigarette, sassi, animali che trova morti nel parco, fiori che mette nel naso o usa come strani addobbi. Tra loro nacque un’amicizia, un legame importante. La domenica lo portava in giro per la città oppure a casa sua, allontanandolo dal contesto alienante. Negli anni che seguirono Andreoli mise a punto un metodo di osservazione del lavoro che veniva svolto nella casetta. Cominciò a catalogare i disegni degli artisti dell’atelier per data e in ordine di esecuzione, se realizzati nello stesso giorno. Annotava in che modo venivano iniziati ricostruendo minuziosamente tutta la fase creativa per poi passare alla scelta dei colori. A questo aggiunse la storia clinica dell’artista, quello che in linguaggio scientifico viene detta anamnesi remota e prossima.
Nel 1961 Andreoli prese una decisione che cambiò la vita di Carlo. Prese alcune opere, le infilò in un tubo e andò a Parigi per incontrare Jean Dubuffet. Questi era un commerciante di vino, appassionato di arte, non quella delle accademie, ma quella vera – da lui denominata brut – prodotta al di fuori delle correnti artistiche, delle convenzioni sociali, dei modi di pensare standardizzati. Aveva messo insieme una nutrita collezione di opere, che aveva trovato in luoghi assolutamente estranei al condizionamento culturale, e tra questi i manicomi, e le aveva esposte nel Musée de l’Art Brut di rue des Sèvres 127.
Come vide le opere di Carlo, Dubuffet ne riconobbe la grandezza, ma per essere certo che non si trattasse di artefatti manipolati dagli psichiatri, le fece vedere ad André Breton, psichiatra, che non aveva mai esercitato come tale, ma che era un grande esperto di arte. Questi certificò che si trattava del lavoro di un vero artista, e non di un semplice matto, in quanto era possibile vederne l’evoluzione stilistica. E così Carlo divenne artista brut a tutti gli effetti con alcune opere presenti nel Musée voluto da Dubuffet.
Rimase nell’atelier fino al 1969 quando l’ospedale venne trasferito in altra sede. Il cambiamento ebbe un effetto negativo, Carlo trovava difficoltà a lavorare, a ricreare la giusta tranquillità per potersi esprimere. Nel 1971 venne dimesso e accolto a casa da un fratello. È la vittoria dell’inserimento della follia nella società, dove non ci sono atelier, e la logica dell’esistenza è scandita da nuove abitudini, da nuovi ritmi. Non può girare per il paese, finirebbe sotto una macchina, rimane chiuso a casa, con qualcuno che lo accudisce. Quando escono tutti viene chiusa a chiave la sua stanza. In questa nuova forma di segregazione sociale, Carlo si ammalò finendo gli ultimi anni in un sanatorio dove morì di tubercolosi nel 1974.
Il percorso artistico di Carlo Zinelli comprende quattro fasi:
– dal 1957 al 1959, caratterizzata da abbondanza di figure minuscole, che frammentano lo spazio del foglio senza un ordine d’insieme e con un vivace effetto di colori contrastanti.
– dal 1961 al 1965 in cui il numero quattro viene ripetuto ossessivamente: quattro uomini, quattro uccelli, quattro pastiglie…
– dal 1966 al 1969 in cui compare prepotentemente la scrittura. Carlo dipinge lettere e figure insieme, racconta della guerra, inserisce delle filastrocche, delle canzoni, delle preghiere.
-dal 1969 fino alla sua morte nella quale i dipinti, prevalentemente in bianco e nero, assumono la forma di narrazioni simboliche con presenza di figure, scritte e segni combinati insieme.
La sua mano, nel dipingere, ha raccontato la nostra storia, quella iscritta nel nostro inconscio e che parla di epoche incomprensibili e di riti lontani. La follia è forse questo viaggio, possibile solo quando non si percepisce più il presente, la quotidianità, come avviene nello schizofrenico. Una condizione per vedere dove la normalità non vede, e per smarrirsi dove la normalità corre sicura (Vittorino Andreoli)
Gabriella La Rovere