Luca in casa famiglia…Marina Viola e il “grande passo”
L’ufficio del DDS, l’agenzia statale che si occupa dei servizi per persone disabili, è bruttino: ha poche finestre, c’è odore di muffa, la moquette è marrone scura e vecchia, il corridoio è buio. Ci accoglie un uomo sulla sessantina vestito da hippie, con tanto di camicia psichedelica, capelli tenuti insieme da una coda di cavallo fatta in fretta e furia, barba lunga e, ovviamente, Birkensock. Ci dice che Tim, il coordinatore del “caso Luca” non è in ufficio e che parleremo con Eric, che arriva subito da noi, con il braccio teso e un bel viso. Lo seguiamo in un piccolo ufficio, anche quello senza finestre e con i muri bianchi ma sporchi, un tavolo bruttino e quattro sedie piegabili, scomode. Avevamo chiesto l’incontro qualche settimana fa per avere informazioni riguardo lo spaventosissimo mondo delle case famiglia e di altre alternative domiciliari per Luca, che l’altro ieri ha compiuto ventitré anni.
Ci sediamo, e io fingo di essere tranquilla, ma dentro di me c’è un groviglio di emozioni, e quella che emerge più forte di tutte è un incredibile senso di colpa per aver anche soltanto pensato di ‘liberarmi’ di Luca. Io e Dan non siamo ancora pronti ad affrontare quest’ultimo, enorme passo, della nostra vita con una persona autistica a basso funzionamento. Mentre cercavamo parcheggio, ci eravamo detti che questo sarebbe stato solo un incontro per avere informazioni, ma che in pratica avremmo voluto che il passaggio da casa a casa-famiglia per Luca accadesse tra un anno o due. Avevamo sentito parlare di lunghe liste d’attesa e non volevamo aspettare l’ultimo momento per agire.
Nell’ufficio bruttino, Eric ci delinea una lista delle possibilità a nostra disposizione. Considerato il monumentale bisogno di supporto che serve a Luca, alcune delle opzioni per alloggi non fanno per lui, per cui rimangono tre possibilità: la group home (casa famiglia) lo shared living o un affidamento famigliare per adulti.
La casa famiglia è un appartamento in cui vivono tre o quattro persone disabili, ognuna con la propria camera da letto, e un assistente che rimane a dormire lì. Poi la mattina, arrivano altri operatori, a seconda del bisogno degli inquilini, ad aiutare. In alcune, invece, gli inquilini sono molto più autosufficienti e hanno bisogno di meno supporto. Gli appartamenti sono tutti di proprietà di diverse agenzie, e tutto, affitto compreso, viene pagato dallo Stato. Shared living (convivenza), significa che lo Stato trova un appartamento per una persona disabile, che viene accoppiata con un individuo che si occupa di lui 24 ore al giorno. Una specie di convivente, insomma, che viene pagato per stare con lui. Le agenzie si occupano di selezionare gli assistenti, e poi inizia un lungo processo decisionale da parte dei genitori per stabilire chi sarebbe il candidato ideale disposto farsi carico del loro figlio disabile. Una terza opzione è l’affidamento famigliare: Luca potrebbe andare a vivere con una famiglia che si occuperebbe di lui, come se venisse adottato. Mi pare di capire che questa è una scelta che si fa in caso di emergenze, e cioè se i genitori non possono più occuparsi del figlio perché anziani, malati o senzatetto.
Queste tre, in sostanza, sono le scelte per noi e per Luca. A me e a Dan è sembrato ovvio da subito che la casa-famiglia sia la scelta più giusta. Eric, molto gentile e preparato, sottolinea il fatto che il 99% delle persone che vive senza genitori fa enormi progressi fin da subito, e che spesso questa decisione è molto più difficile per i genitori che non per i figli. Ci spiega anche che la transizione da casa alla casa-famiglia viene fatta gradualmente e dolcemente e che la stragrande maggior parte delle volte è un’ottima esperienza per tutti.
Ha lasciato le notizie peggiori per ultime: una persona come Luca, che vive in una famiglia in cui i genitori sono sani, relativamente giovani, bravi a gestire il figlio disabile, con una dimora sicura, non sono certamente i primi ad essere interpellati quando si libera qualche raro posto in una casa-famiglia. E se anche si liberasse, potrebbe non essere la sistemazione ideale. “Una volta la settimana io e i miei colleghi decidiamo quali sono i casi che hanno necessitano priorità. Sono situazioni di emergenza, in cui la persona disabile non può più ricevere supporto dalla famiglia. In questi casi, è obbligatorio trovare un posto entro novanta giorno.
“Per famiglie come voi, senza priorità, i tempi sono lunghissimi” aggiunge. “Lunghi quanto?”, gli chiedo, pensando che per noi andrebbe anche bene aspettare un annetto o due, e che mi sentirei una merda a togliere il posto a una famiglia che ha certamente più bisogno di noi. “Si parla di sei mesi? due anni, di più?”. Si parla di anni, tanti. “Tipo, dieci?” Sì, tipo dieci, risponde Eric.
Quindi Luca sta con noi fino a quando avrà più di trent’anni, e noi più di sessanta, a meno che a uno di noi non venga una malattia incurabile, o perdiamo la casa, o ci capita una disgrazia. “Forse dovrei cominciare a drogarmi pesantemente”, dico a Dan mentre usciamo, cercando di sdrammatizzare.
In tutti questi ventitré anni di esperienza con i diversi enti che si occupano di supporto alle persone disabili e alle loro famiglie, non ci è mai capitato di sentirci dire che no, non possiamo essere aiutati.
Cerco di capire come mi sento dopo l’incontro, dopo aver ricevuto tutte queste informazioni. La prima cosa che mi viene in mente è che non so se riuscirò ad affrontare ancora dieci anni con Luca, che, ormai è chiaro a tutti, amo più di ogni persona al mondo. Sono stravolta, ho voglia di acquistarmi un po’ della libertà che avevo nella mia vita pre-autismo, quando le mie esigenze non venivano continuamente schiacciate da quelle di Luca. Ho dato l’anima per mio figlio e non avrei voluto fare altrimenti. Ma altri dieci anni così è troppo.
Poi penso anche che magari non saranno dieci anni, o forse sì, ma comunque so per certo che durante questo periodo Luca riceverà l’amore quotidiano dell’unica persona al mondo che sa darglielo meglio di qualunque altro e rimarrà comunque più protetto e più al sicuro qui. Per il resto, si vedrà.
Marina Viola
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