Brevissima storia di una donna che si è data fuoco in un campo ad agosto
Si è spenta l’eco mediatica sugli avventori di un ristorante di Crema, quelli che mentre una donna si dava fuoco invece che soccorrerla la filmavano con gli smartphone. Nell’inorridirsi generale anche io, come molti altri colleghi, ho dato la mia lettura dell’accadimento nel mio giornale (riporto qui sotto il pezzo pubblicato su LA STAMPA di domenica 2 agosto). Ripeto quello che scrissi quando ancora poco si sapeva sulla donna che è morta a seguito del suo gesto. Il comportamento di quelle persone è unicamente una punta più visibile di un atteggiamento metabolizzato dall’intera umanità, in questa fase della nostra evoluzione digitale, che ci porta all’immediata e istintiva necessità di condividere ogni istante della vita quotidiana che giudichiamo “memorabile”. Sicuramente una donna che si da fuoco è nella scala delle nostre esperienze un fatto epico. Detto questo, il giorno stesso che è uscito il mio pezzo mi è capitato di partecipare a un dibattito televisivo di TgCom sull’accaduto a cui partecipava un amministratore locale. Da quell’occasione la mia riflessione si è orientata sul vero aspetto scandaloso di tutta la vicenda, aspetto che naturalmente non ha trovato uguale attenzione nei media. La vittima era una 38enne di Pizzo Calabro affetta da problemi psichici, Di lei si erano perse le tracce già il 6 ottobre 2019, quando si era allontanata dalla comunità di recupero nel Vibonese che la ospitava. Fu rintracciata a poche ore di distanza alla stazione Termini di Roma.
Nel luglio 2014 aveva anche tentato di uccidere la madre con 14 coltellate, durante una lite in auto; era stata arrestata dai carabinieri con l’accusa di tentato omicidio. Era quindi una persona che da tempo aveva manifestato evidenti e seri disturbi, per questa sua fragilità avrebbe dovuto essere tutelata e aiutata, invece si è trovata sola in mezzo a un campo con una bottiglia di benzina in mano. I genitori della donna hanno dichiarato di perdonare tutti in nome del loro essere buoni cristiani. La figlia era ospite di una comunità che immagino si occupasse con competenza di persone con problematiche di genere psichico, a me però verrebbe di domandare se il gesto poteva in qualche modo essere previsto, o evitato. Le loro parole sembrano essere dettate da un dolore profondo e indicibile, che non vede alternative possibili all’ineluttabile destino della loro sfortunata figliola: «La città di Crema, i suoi abitanti non hanno nulla da vergognarsi. Da voi nostra figlia è stata accolta bene e trattata altrettanto bene».
Non voglio aggiungere nulla, tanto meno alimentare possibili polemiche sul chi e sul come avesse in carico la donna. Mi rendo solo conto quanto ancor futile sia io stato, molto più di chi, quel sabato, abbia affidato allo smartphone il compito di conservare memoria di quella donna. Ho confezionato la mia bella lettura mass mediologica, ma non mi sono posto, mentre scrivevo, la domanda sul perché mai una donna avesse potuto darsi fuoco nella controra di un sabato d’agosto. Ora lo so: aveva un cervello ribelle e noi non siamo stati capaci di consentirle di vivere comunque un’esistenza dignitosa.
QUEI VOYEUR DAL CUORE DURO DELL’ERA DIGITALE
Cosa fareste di fronte a una persona che si contorce avvolta dalle fiamme? Premesso che, come tutti noi, abbiate in dotazione un apparecchio con cui chiamare i soccorsi. Per molti avventori di un ristorante di Crema quella torcia umana, a pochi metri dalla loro tavola imbandita, rappresentava un raro evento da immortalare più che una vita da strappare alla morte.
La donna si era data fuoco ed è morta. È assai probabile che dei suoi ultimi spasmi e di quello spettacolo atroce qualcuno conservi traccia nella galleria del proprio smartphone. Potrebbe già aver condiviso lo scoop con gli amici o le amiche del gruppo di WhatsApp o di Telegram, gli stessi che usa per organizzare le scampagnate, per scambiare informazioni sui figli e sulla scuola, per amoreggiare, per tresche clandestine.
Spero che nessuno abbia avuto la scelleratezza di pubblicare sui propri social il reportage girato davanti al piatto dei tortelli. Forse chi l’ha fatto ora avrà velocemente cancellato quelle stories da Instagram, soprattutto dopo che la sindaca Stefania Bonaldi ha condiviso su Facebook il post dell’unico vero eroe di questa vicenda, il signore che è sceso dalla macchina e ha provato con una coperta a spegnere la donna tra le fiamme.
L’uomo si rivolge alla prima cittadina di Crema per dire che di fronte a quel rogo c’erano almeno altre venti persone con il telefonino in mano, tutti immobili a riprendere la scena.
Ora possiamo anche sentirci dalla parte dei giusti e giurare che mai saremmo scesi a una bassezza simile. Possiamo pensarlo se questo ci assolve, ma oramai una mutazione antropologica è avvenuta e noi, anche se con diversa gradualità di consapevolezza, la stiamo metabolizzando.
E meglio riflettere sui nostri comportamenti quotidiani prima di gettare anatemi sugli avventori cremaschi, a cui qualcuno, se ci sono le circostanze, ricorderà che l’omissione di soccorso è un reato.
Il primo episodio di cui ho memoria che anticipa ciò che è accaduto a Crema avvenne a Mont Saint Michel, nel 1994. Lo ricordo perché al tempo mi colpì e ne scrissi, allora una folla di turisti invece che soccorrere una persona che affogava, preferì riprendere la scena con le prime macchine fotografiche digitali. Non esistevano ancora i telefoni che facevano foto, ma fu il primo caso di cronaca in cui si notò che, l’avvento di periferiche individuali per riprendere il reale e tenerne immediata memoria, induceva le persone a considerare quasi una necessità il trasportare in una dimensione epica condivisibile quello che di memorabile avvenisse nel mondo concreto
È chiaro che dopo un quarto di secolo di attitudine al veloce accumulo di reperti digitali, quella stessa spietatezza sembra oggi solo la punta estrema dell’anestesia di ogni nostro allarme emotivo, che ci propiniamo nel trasformare in pixel la carne, i sentimenti, le emozioni.
Questo senza rasentare il crimine lo facciamo ogni giorno tutti.
Alleniamoci dunque a tornare con i piedi per terra, almeno quando con la nostra macchina dei sogni possiamo anche salvare la vita a un nostro simile.