Due casi e due giudizi per chi uccide in famiglia
Un padre ha ucciso il figlio autistico, per lui non immaginava un futuro accettabile. Una signora anziana ha posato accanto al letto una pistola, l’ultimo regalo che le aveva chiesto il marito malato che si è suicidato. L’uomo è stato prosciolto, la donna invece condannata.
Non è per niente facile domandarsi quale sentenza sia stata più equa. In entrambi i casi il comune teatro del crimine è il territorio inospitale della disperazione umana, quello in cui nessun tribunale potrà mai giudicare solo in nome della legge.
Di certo non si uccide per troppo amore, è criminale banalizzare un tale concetto. Chiunque di noi potrebbe però trovarsi nel veder incombere, sulla persona che più ama, il presagio di immaginarla cadavere per mano sua.
Può accadere di fronte al bivio più atroce di tutta la propria esistenza, nell’attimo in cui si decide il passo per cui l’universo intero tracolla in un singhiozzo. Non voglio portare come attenuante la disastrosa solitudine in cui ciò possa avvenire. Nemmeno invocherò la colpevole assenza di chi avrebbe potuto evitare che chi è disperato affoghi nelle proprie lacrime, magari creando condizioni di un più efficiente supporto sociale.
Vorrei invece che chi sia già pronto a cavare dalla tasca il suo raccapriccio, in nome di regole di vita di valori etici, morali, religiosi, prima di parlare ci rifletta bene. Chi agevola una morte in contesti simili è già morto dentro, mille e mille volte.
Chi può dare dell’assassino a chi è già morto? Chi può immaginare cosa significhi per un padre allevare in famiglia per venti anni un figlio neurodiverso, vederlo crescere come il più fragile dei fragili, saperlo incapace a capire il mondo e a farsi capire, perché è indifeso come un bambino anche se grande e grosso come un omone. Poi portarlo a spasso tenendolo per mano, tenerlo abbracciato davanti allo stesso cartone animato per interminabili serate, mentre i suoi coetanei vanno a ballare, fanno l’amore, progettano la felicità. Poi anche la mamma muore, il padre la sua vita l’ha già bruciata per quel figlio. Poco male, però sa che quando lui non ci sarà più, il mondo intero per quel ragazzo tracollerà in un pozzo nero senza fondo. Sceglie così di andare verso il buio assieme a lui. Però è sopravvissuto, per lui non si può immaginare pena più atroce. Cosa resterà invece di vitale nel ricordo della donna di settanta anni, dopo che ha soddisfatto quella richiesta di una pistola? Chissà in quante occasioni lei e l’uomo che ha avuto vicino per quaranta anni avranno smontato e pulito assieme quella calibro nove. Li univa la passione collezionare armi, ne avevano tante per casa, ma quella volta il marito ne voleva una ben carica, proprio accanto al cuscino su cui, giorno dopo giorno, affondava il suo soffrire senza speranza di guarigione.
Qualcuno vuol ribattere che era impossibile non immaginare che uso avrebbe fatto di quell’arma? È stato palesemente il suggello di un patto di fedeltà? Non serve oramai chiederselo. Lei è stata già condannata per aver collaborato a un suicidio. L’unica certezza è che lui non c’è più, solo però perché ha scelto di essere il bersaglio del suo ultimo sparo.
Chi ancora pensa che si sia trattato di due ipotetici delitti, capirà ora che c’è stata comunque una lunga e pesantissima pena.