Kurt Goldstein e il valore della concretezza nelle persone autistiche
La prima impressione incontrando L. è che è un bambino erratico ed ipercinetico, spinto da un bisogno di mantenersi in costante movimento. Sembra anche che sia governato da un impulso ricorrente a muovere rapidamente tutte e quattro le dita di ciascuna mano in un battito, sfregandoli contro i pollici (in un movimento come lo schiocco delle dita ma senza lo schiocco) […] Mostra una gentilezza stereotipata come quando risponde o si rivolge alle persone. La maggior parte del tempo L. sembra egocentrico e socialmente distaccato. […] Spontaneamente chiede ad ognuno di noi “Quando è il tuo compleanno?” Dato il giorno, egli risponde in una frazione di minuto: “Il compleanno del dr. G è stato di sabato l’anno scorso e quello del dr. S di mercoledì”. […] Inoltre, è in grado di dire subito in quale giorno della settimana è caduto il compleanno cinque anni fa o nel 1945. Esaminato con più attenzione, L. si dimostra capace di dire il giorno della settimana di qualsiasi data tra il 1880 e il 1950. Al contrario, può anche fornire la data per un dato giorno della settimana in qualsiasi anno di quel periodo, ad esempio, la data del primo sabato di maggio del 1950 o dell’ultimo lunedì di gennaio del 1934. (tratto da “A case of idiot savant” di Kurt Goldstein, 1945)
La ricerca mescolata alla curiosità porta alla scoperta di questi tesori dimenticati, seppelliti da centinaia di migliaia di lavori scientifici che sicuramente hanno allargato la conoscenza sulla neurodiversità ma che non avrebbero ragione di esistere senza questi pionieri dell’osservazione clinica.
Kurt Goldstein (1878-1965) è stato un neurologo e psichiatra tedesco che scrisse il suo maggior lavoro teorico “Der Aufbau des Organismus” (La struttura di un organismo) dopo la sua fuga dalla Germania nazista. Nel libro introdusse un nuovo modo con il quale credeva si potesse rendere più giustizia alla descrizione e alla comprensione del comportamento degli esseri viventi normali e patologici. Le osservazioni a lungo termine e i test neuropsicologici effettuati su 2000 soldati feriti al cervello durante la Prima Guerra Mondiale fecero sì che egli mettesse in dubbio l’adeguatezza e l’utilità dell’approccio convenzionale per la comprensione della patologia. Secondo Goldstein, la conoscenza dell’esatta localizzazione della lesione cerebrale in un soldato ferito non aiutava la terapia, né la localizzazione di una lesione poteva spiegare la straordinaria complessità del comportamento patologico manifestato dal paziente. L’errore basilare risiedeva nell’ipotesi che il danno corticale fosse di solito seguito da una perdita di funzioni circoscritte, quali la parola, la visione o la performance motoria.
Siamo diventati così abituati a considerare i sintomi come dirette espressioni del danno in una parte del sistema nervoso che tendiamo a ritenere che, in corrispondenza di un dato danno, sintomi definiti debbano apparire inevitabilmente.
Questo metodo non riusciva a fornire una comprensione più profonda del modo in cui l’intero organismo cercava di compensare i disturbi interni. Invece di focalizzarsi su specifiche lesioni, riflessi e particolari disturbi, e invece di affermare che individui con lesioni simili erano affetti allo stesso modo, Goldstein si concentrò sulla performance del singolo organismo.
Se un certo sintomo apparirà a causa di un danno locale, specialmente se diventerà un sintomo permanente, certamente dipenderà da molti fattori: dalla natura del processo patologico, dalla condizione del restante cervello, dallo stato della circolazione, e dalla costituzione psico-fisica del paziente. Dipende anche dalla difficoltà di quella performance, il cui disturbo rappresenta il sintomo e, per concludere, dalla reazione dell’intero organismo al danno.
Così come reazioni di comportamento normale sono espressioni del tentativo dell’organismo di affrontare certe richieste dell’ambiente, i sintomi (ossia le reazioni anormali) sono risposte, date dall’organismo modificato, a domande precise: sono tentativi di soluzioni ai problemi derivati, da un lato dalle richieste dell’ambiente naturale, dall’altro da compiti speciali imposti all’organismo nel corso dell’esame.
L’analisi dei cambiamenti comportamentali in pazienti sofferenti di danni cerebrali portò Goldstein a fare una distinzione tra due modi di comportamento: l’astratto e il concreto. In tutti i suoi pazienti con danno cerebrale, Goldstein notò una ridotta capacità per il pensiero astratto e una forte tendenza verso il comportamento concreto.
Osiamo sottolineare che ogni volta che il paziente deve trascendere l’esperienza concreta per agire, ogni volta che deve riferirsi alle cose in modo immaginario, fallisce. D’altro canto, ogni volta che il risultato può essere raggiunto dalla manipolazione del materiale concreto, egli agisce con successo […] Qualunque problema che costringe il paziente al di là della sfera della realtà immediata a quella possibile, o alla sfera della rappresentazione, assicura il suo fallimento.
Nei pazienti di Goldstein con danni cerebrali, la perdita dell’atteggiamento astratto riduceva la capacità di accettare i compiti imposti dall’ambiente. Ciò li rendeva estremamente vulnerabili alle cosiddette “reazioni catastrofiche” verso le quali essi avevano sviluppato delle strategie per evitare un sovraccarico di ansia. Una delle strategie, o performance sostitutive come era solito chiamarle, era la tendenza del paziente verso un ordine eccessivo e maniacale. Un’altra era il ripetere continuamente una performance precedente; in pratica, il paziente evitava una situazione catastrofica tenendosi occupato con quelle cose che era in grado di svolgere.
L’osservazione comportamentale portò Goldstein a evidenziare una specie di fobia del vuoto. Un paziente, ad esempio, non riusciva a scrivere su un foglio bianco, ma poteva superare la difficoltà se era tracciata una linea. Un altro non era capace di leggere lettere o parole in uno spazio vuoto, senza una qualsiasi traccia a delimitarle. Queste difficoltà, affermava Goldstein, non consistevano in una incapacità a leggere o a scrivere senza linee, ma all’incapacità a fare qualcosa senza aggrapparsi ad un dato oggetto concreto. I suoi pazienti cercavano di evitare questo genere di situazioni di vuoto perché lo spazio vuoto non era uno stimolo adeguato e richiedeva un atteggiamento astratto, che era esattamente ciò che a loro mancava.
Goldstein che scrisse Der Aufbau des Organismus nel 1934, rimase stupito 25 anni più tardi dal modo in cui i bambini autistici di Kanner reagivano in una maniera che ricordava i suoi pazienti con danni cerebrali e disturbi dell’astrazione. Il comportamento inflessibile e ristretto, la particolare relazione alle persone e alle cose, la tendenza ad avere sfoghi nervosi, la mancanza di immaginazione, l’incapacità a capire gli scherzi e le metafore, l’impossibilità a riflettere sulle proprie azioni o di vedere attraverso la prospettiva di un altro, la forte dipendenza sugli altri per la sopravvivenza e per adattarsi nel mondo complesso, erano aspetti che Goldstein osservò ripetutamente sia in bambini anormali che in adulti con danno cerebrale.
Aveva anche notato che il bambino normale si comporta, in qualche modo e per un certo periodo di tempo, in maniera simile al paziente con danno cerebrale. Gli stimoli che originano dall’ambiente del bambino non si adattano ancora al suo organismo in quanto presuppongono una maturità che verrà raggiunta successivamente. L’ansia e il bisogno di prevedibilità, di regolarità (ad esempio, i rituali per andare a letto) giocano un grande ruolo nella sua vita. La condizione dell’infanzia – sosteneva Goldstein – è adatta a provocare facilmente catastrofi, e quindi stati di ansia.
Questi bambini sono venuti al mondo con innata incapacità di formare il solito contatto affettivo, biologicamente fornito, con le persone (Leo Kanner) Per Goldstein non era così. Con la sua idea dei tipi di reazione primitiva, il bambino autistico reagiva solo agli stimoli e non alle persone. Goldstein non presupponeva che ci fosse una specifica capacità innata per il contatto affettivo. Le persone erano trattare come oggetti, non perché il bambino non avesse alcun sentimento per esse, ma perché era il suo unico modo di entrare in relazione sia con le persone che con le cose. Goldstein affermava che il comportamento ripetitivo e le routine erano solo forme reattive che permettevano al bambino autistico di entrare in contatto con il mondo.
I fenomeni patologici sono l’espressione del fatto che le relazioni normali tra organismo e ambiente sono state cambiate attraverso un cambiamento dell’organismo e che in tal modo molte cose che erano adeguate all’organismo normale non lo sono più per quello modificato.
Goldstein vedeva nei suoi pazienti e nei bambini autistici una tendenza a stabilire una nuova relazione con l’ambiente, una nuova norma di vita, che era caratterizzata da una forte aderenza al comportamento concreto e ordinato in un ambiente nuovo ma ristretto.
Gabriella La Rovere