Joey il bambino meccanico
Joey, quando iniziammo il lavoro con lui, era un bambino meccanico. Così scrisse Bruno Bettelheim nel 1959 descrivendo un bambino di nove anni con uno sguardo vuoto che, come dichiarò lui stesso, si era trasformato in una macchina perché non sopportava di essere un umano.
A Joey è dedicato un capitolo del suo libro più famoso e controverso: La fortezza vuota. Leggerlo dopo più di cinquanta anni, e con tutto un bagaglio di conoscenze e di esperienze dirette, ha la sua importanza. Il bambino, preso ad esempio per spiegare le teorie sull’autismo, viene descritto come gracile, con occhi neri e grandi, pieni di dolore, dallo sguardo vago, che non si fissava su nulla di preciso.
Aveva iniziato a parlare tardi, la sua andatura era rigida: non dava l’impressione di muovere le braccia e le gambe, ma piuttosto di avere degli estensori azionati meccanicamente. Il piccolo venne portato da Bettelheim su insistenza dei nonni paterni che vedevano in lui qualcosa di strano. All’epoca, lo psichiatra dirigeva l’Orthogenic School di Chicago, un centro residenziale per giovani con severi disturbi emotivi. Aveva ricevuto dalla Fondazione Ford un finanziamento per osservare, nel corso degli anni, un gruppo di bambini autistici; e tra questi Joey. Il bambino era letteralmente preso dalle macchine che lo interessavano molto di più delle persone, soprattutto un ventilatore, dal quale non si separava mai, e che riusciva a smontare e rimontare, in cicli senza fine. Ogni tentativo per fermare questo loop di movimenti, sempre gli stessi, provocava crisi di rabbia con lancio di oggetti, aggressione verso se stesso e gli altri.
Il momento del mangiare soggiaceva ad un preciso rituale: sistemando sul pavimento un suo filo immaginario, Joey si collegava alla sua sorgente di energia elettrica, poi allacciava il filo di una presa altrettanto immaginaria alla tavola per l’isolamento e infine si inseriva nel circuito […] Doveva sistemare questi immaginari contatti elettrici prima di mettersi a mangiare poiché solo grazie alla corrente il suo apparato digerente era in grado di funzionare. Rifiutava di bere a meno che non fosse collegato a un elaborato sistema di tubazioni costruito con cannucce.
Bettelheim aveva pochi dubbi sul fatto che il comportamento di Joey rappresentasse la sua risposta al rifiuto dei genitori. È su questa ipotesi, strenuamente sostenuta, che si basano le successive pagine del capitolo e tutta la sequela di sospetti, giudizi, condanne che le madri di bambini autistici hanno dovuto sopportare fino al 1997 quando la teoria di Bettelheim è stata definitivamente accantonata. Bisogna essere fortunati come figli e il piccolo Joey sicuramente non lo era. Sia la madre che il padre avevano avuto una precedente relazione amorosa finita male, se non tragicamente.
Scegliersi è sembrato per entrambi il male minore. Nessuno dei due era pronto ad essere genitore e quando la donna si accorse della gravidanza, dapprima la negò, per poi pensare che un figlio avrebbe riempito la sua solitudine. Subito dopo la nascita si rifiutò di vederlo e di allattarlo e, tornata a casa, seguì un rigido programma di alimentazione ogni quattro ore, insensibile ai ritmi e bisogni del bambino. Il padre di Joey non era meglio e talvolta scaricava le sue frustrazioni punendolo quando piangeva di notte. Per Bettelheim non c’era altra possibilità per il bambino che ritirarsi nel proprio mondo.
Se le prime pagine hanno un loro fascino, perché è indubbia la sua capacità narrativa, alcune osservazioni e spiegazioni, risentendo dell’influenza freudiana, sembrano raccontare una storia che non può essere considerata universale, valida per ogni bambino autistico. In alcuni casi il rapporto di causa-effetto sembra del tutto arbitrario e rovinoso, dal momento che, di tutto il suo pensiero, nella mente di ogni persona, anche la meno acculturata, sia rimasta l’associazione autismo-madre frigorifero, che tanti danni ha fatto in questi anni. Joey era affezionato alle macchine perché gli offrivano una esperienza più ricca e significativa […] Facevano rumore quando si mettevano in moto ed erano silenziose quando stavano ferme; erano dunque reali, in confronto alla “irrealtà” della madre e alla sua distaccata indifferenza. […] E poiché la madre non offriva un terreno fertile alle sue reazioni emotive, queste finirono con l’affondare le loro radici in certi oggetti.
La stereotipia o stimming, ossia il comportamento di auto-stimolazione, si presentava in Joey con una fissazione verso oggetti che ruotavano; talvolta lui stesso girava in tondo senza perdere l’equilibrio. Dunque gli oggetti che ruotano devono avere un qualche altro e più profondo motivo di interesse; devono cioè essere particolarmente adatti a esprimere qualcosa che caratterizza in modo globale questa malattia. Io penso si tratti del fatto che girano costantemente in tondo senza arrivare mai a una meta […] L’infante ha uno straordinario bisogno di reciprocità. Vuol far parte di un cerchio costituito dai genitori e da lui stesso, anzi il suo vero desiderio sarebbe di essere il centro attorno a cui ruotano gli interessi e la vita stessa dei genitori.
È questo il messaggio che lancia il bambino autistico quando si dondola avanti e indietro o quando gira e rigira in tondo. Sono le affermazioni di questo tipo, speculative e prive di fondamento scientifico, ad aver condizionato il pensiero di tanti clinici che, davanti ad un bambino con difficoltà cognitive e di relazione, hanno guardato la madre sottoponendola ad un fuoco di fila di domande.
All’età di 15 anni Joey riferì a Bettelheim di aver capito il motivo della sua attrazione verso i rumori meccanici e delle sue esplosioni di rabbia. Erano reazioni difensive alle liti dei genitori e alla cosiddetta scena primitiva, cioè al rapporto sessuale, a cui aveva assistito quando aveva due anni. È lecito pensare che tali rivelazioni, sulle quali furono poi versati fiumi di inchiostro, siano stati il frutto di un tentativo ben riuscito del ragazzo di essere il centro attorno al quale hanno ruotato per anni Bettelheim e colleghi.
Non poteva mancare l’analisi della fase orale e di quella anale. La paura di Joey di essere inghiottito dal gabinetto quando lasciava andare il contenuto del suo intestino poteva non essere necessariamente legata in modo diretto al problema dell’eliminazione. I suoi terrori nascevano da quella che era la sua esperienza di fondo: il sapere che l’affetto della madre non bastava a saldarlo al mondo.
Nelle 127 pagine che descrivono il caso di Joey sono presenti manifestazioni comuni a tutte le persone nello spettro, quali il parlare in terza persona, esprimere le emozioni tramite la negazione, alcuni comportamenti derivanti dal mirroring, sulle quali si sono formulate teorie empiriche che hanno avuto un peso sulle famiglie. Innumerevoli genitori di bambini autistici negli anni ’50 e ’60 cercarono un aiuto professionale solo per essere inviati in psicanalisi per aiutarli a capire come avevano potuto rifiutare il loro bambino. La storia di Joey aiuta a capire come tale pessima idea possa diventare così penetrante per decenni.
Gabriella La Rovere