Quando Bettelheim pensava che i “bambini selvaggi” fossero autistici
Lo studio dei cosiddetti bambini selvaggi e il paragone con i bambini autistici suggerisce che il loro comportamento è dovuto in parte, se non interamente, ad un isolamento emotivo estremo, combinato con esperienze che essi interpretarono come una minaccia di totale distruzione. Sembra essere il risultato della disumanità di alcune persone – solitamente i loro genitori – e non il risultato, come si presupponeva, dell’umanità di animali – particolarmente dei lupi. Per metterlo in maniera differente, i bambini selvaggi sembrano essere prodotti non quando i lupi si comportano da madri, ma quando le madri si comportano come non-umani.
Sono queste le conclusioni sconcertanti alle quali arriva Bettelheim al termine di un bel lavoro pubblicato nel 1959 su American Journal of Sociology con il quale interveniva in un dibattito che interessava alcuni studiosi dell’epoca: esistono i bambini selvaggi?
Fin dalle prime battute, egli affermò di essere convinto che la maggior parte dei cosiddetti bambini selvaggi fossero bambini che soffrivano della forma più grave di autismo, facendo una serie di considerazioni sulla base della sua esperienza con i piccoli pazienti seguiti dalla Sonia Shankman Orthogenic School, una scuola laboratorio dell’Università di Chicago, dedicata all’educazione e al trattamento di bambini severamente disturbati. L’analisi riguardava il caso delle due bambine lupo di Midnapore, Kamala e Amala, catturate nel 1920 dal reverendo Singh e da un gruppo di cacciatori. Le bambine furono viste per la prima volta in compagnia di una lupa con tre cuccioli. Presumibilmente Kamala aveva 8 anni e Amala 15 mesi. Al momento della cattura camminavano a quattro zampe, non parlavano, erano indifferenti al freddo e al caldo, la pelle era sensibile al tatto.
Come erano riuscite a sopravvivere alla natura selvaggia? Come si erano perse? Credo, dalla nostra esperienza con i bambini autistici, che le bambine selvagge non potessero sopravvivere per molto tempo da sole, anche con la clemenza del clima indiano. Né il loro aspetto emaciato, né l’assenza di indumenti e l’orribile palla di capelli arruffati, provano che siano state sperse per molto: alcuni dei nostri bambini autistici mantengono questo aspetto selvaggio per mesi. Secondo Bettelheim le bambine furono abbandonate dai loro genitori in quanto inaccettabili.
La possibile natura selvaggia di Kamala e Amala riguardava la loro incapacità a camminare erette, ma solo a quattro zampe. Il primo progresso di Kamala (Amala morì per nefrite dopo un anno dalla cattura) fu il passaggio alla cosiddetta posizione bi-rotulea e poi al movimento; successivamente la bambina raggiunse la stazione eretta appoggiandosi al muro. In tutti i casi di bambini selvaggi riportati in letteratura, nessuno imparò mai a correre. La spiegazione fornita dagli studiosi dell’epoca risiedeva nel fatto che la coordinazione degli arti inferiori veniva meno sotto lo stress del movimento rapido, alla quale doveva aggiungersi il bilanciamento operato dai due arti superiori. In generale, nella posizione quadrupede, i muscoli delle anche sono più corti e i muscoli glutei sono allungati. Quando si passa alla posizione bipede, avviene il contrario. Al momento della corsa, questi muscoli si contraggono più rapidamente per sostenere l’andatura veloce.
Credere che il loro camminare a quattro zampe fosse dovuto alla loro vita con i lupi è pura congettura. Credo sia molto più ragionevole ritenere che il loro camminare a quattro zampe fosse parte di una regressione che vediamo frequentemente in alcuni dei nostri bambini autistici.
Un’altra caratteristica delle bambine, riferita dal reverendo Singh e attribuita al loro passato selvaggio, era di tenere gli occhi ben aperti di notte, così come fanno i gatti o i cani. Questa acutezza visiva venne da lui riscontrata il giorno dopo che iniziarono ad andare carponi, quando stavano appena emergendo da una fase di profonda debolezza. La riflessione di Bettelheim non poteva che essere:
Come Singh potesse essere sicuro che vedessero meglio di notte che durante il giorno, al momento in cui si muovevano con grande difficoltà e non facevano nient’altro, è al di là da me.
Tra le tante argomentazioni sulla loro natura selvaggia, c’era la insensibilità al freddo e al caldo, spiegata come riflesso condizionato dalla loro vita con i lupi. Anche qui non poteva mancare il paragone con i bambini autistici della Orthogenic School
Alcuni dei nostri bambini autistici hanno tentato di correre nudi nella strada anche nel clima invernale di Chicago, quando la temperatura è abbastanza differente da quella di Midnapore. Li abbiamo sempre ripresi rapidamente, tuttavia sembravano totalmente insensibili a tali esperienze e non hanno mai avuto nient’altro che un raffreddore.
Anche la sensibilità al dolore nei bambini psicotici è, in qualche maniera, diversa da quella dei bambini normali, ma sicuramente non ha niente a che fare con un passato selvaggio. Un’altra caratteristica messa in elenco a favore della ferinità era la loro incapacità a ridere. Per Bettelheim tale particolarità era presente in molti bambini autistici finché non si realizzava il viraggio verso la nevrosi severa.
L’articolo continua raccontando il caso di Anna, bambina la cui condizione di estremo ritiro dal mondo e di grave regressione cognitiva erano dovuti in parte al periodo storico – la Seconda Guerra Mondiale – che costrinse i suoi genitori, di origine ebraica, a vivere in un nascondiglio sottoterra per diversi mesi, e in parte al mancato senso di responsabilità della madre. Per fortuna le sue considerazioni finali, presenti in apertura, sono state contraddette dagli studi scientifici più recenti, senza per questo dar meno importanza al ruolo della relazione madre-figlio.
Gabriella La Rovere