DAL SACRO TATTOO A L’OBBLIGO RADIKAL BURINO
Premetto quello che qualcuno sta per dire: adesso scrivi qui di tatuaggi? Cosa ha a che fare con i nostri teneri angioletti? Ogni tanto qualche mestrin* quando legge qui un articolo simile a quello che segue scrive: “Cosa c’entra con gli autistici?” o peggio ancora: “vergognatevi trattare un argomento del genere in un sito dedicato all’autismo…”. Chiarisco questo concetto una volta per tutte: l’idea “Per noi autistici” vede la luce nel febbraio 2013, anche se all’inizio aveva un altro nome, quella è la data del mio primo articolo in cui spiegavo perchè avevo scritto il mio primo libro su Tommy. Da quel momento in questo dominio sono passati più di duemila articoli che hanno segnato l’evoluzione del mio punto di vista neurodiverso. Amiche e amici hanno collaborato aggiungendo i loro pensieri, ultimamente scrivo quasi unicamente io con dei contributi importanti del Centro Autismo di Tor Vergata e le interessanti ricerche storico-cliniche sulle menti eccentriche che ci manda Gabriella La Rovere. Sta comunque di fatto che sono più di otto anni che racconto scrivendo, o in modalità audiovisiva, il mondo dei cervelli ribelli visti da chi il cervello non ce l’ha esattamente nello standard. Questo è il perimetro di quello che qui pubblico, sconfinato, ondivago, incoerente, contraddittorio e irrazionale… Con ansia additiva per la maniacale tendenza a sistematizzare. Chi vorrebbe ben altro rigore mono tematico starnazzi verso altrui grigie mucillaggini, intanto si rifletta sul fatto che gli autistici spesso si riconoscono proprio per l’assenza di tatuaggi.
DAL SACRO TATTOO A L’OBBLIGO RADIKAL BURINO
Correva suppergiù l’anno 1769 quando il capitano James Cook annotò nel diario del primo dei suoi tanti viaggi nel Pacifico che gli indigeni di Tahiti si decoravano la pelle, picchiettando su un ago con una tavoletta di legno. L’eroe e navigatore Inglese descrisse il rumore che produceva l’operazione con un’onomatopea, che suonava più o meno come l’attuale termine Tattoo.
Noi alla fine ancora cerchiamo significati profondi in una pratica che abbiamo importato nel nome, come in gran parte nella realizzazione pratica, da signori della Polinesia che avevamo la pretesa di “civilizzare”.
Il tatuaggio tradizionalmente certifica in maniera indelebile un passaggio importante nel corso del proprio esistere. Tracciare sulla propria pelle, pure con dolore, una linea di confine è un gesto che presuppone la cognizione del “rito”, vale a dire la consapevolezza dell’atto magico, operato su un piano fisico, per stabilire il contatto con una dimensione immaginaria, immateriale, superstiziosa o trascendente, a seconda del contesto in cui il tatuarsi si produce.
Nella contemporaneità più stretta nello scarnificarsi cruento si è dimenticata, quasi ovunque, la sua origine cerimoniale. Può equivalere all’ “appuntarsi” un evento, nella maggior parte dei casi un amore, anche un viaggio o un incontro, che si giudica “memorabile”.
È in pratica un pro memoria che si scrive sulla propria epidermide come fosse un block notes. A un rango di consapevolezza rituale ancora più diluita ci si tatua per semplice velleità di appartenenza a una élite (supposta), spesso celebrata nel circuito dei media. Si tatuano artisti, celebrità, influencer, attori. Tatuati sono i protagonisti di fiction, come tatuati sono la maggior parte degli eroi ed eroine delle serie televisive che celebrano forza, successo o seduzione.
Insomma oggi, nella popolazione che vive e agisce nella norma, il tatuarsi corrisponde all’invocare “Oh sono anche io un vincente!”. Per questa ragione la sua pratica è tracimata oltre il bisogno di segnalare alla comunità degli individui “nella norma” la propria eccentricità o l’aver sperimentato, per scelta o fatalità, percorsi di vita atipici, come ad esempio essere stati in carcere, appartenere a una setta od organizzazione criminale.
In occidente, fino a qualche decennio fa, il tatuarsi corrispondeva a un gesto di ribellione al duplice anatema, religioso e positivista, che lo considerava, pur da opposti punti di vista, un segno dell’appartenere alla stirpe dei dannati. Furono nel tempo vari i papi che misero al bando chi si tatuava, a cominciare dal Concilio di Nicea.
Ancora oggi nei manuali di demonologia, su cui si arrovellano i più integralisti tra i cristiani, si può leggere che tatuarsi consista nel marchiarsi in una consacrazione satanica, mirata a modificare il nostro corpo “Tempio di Dio”. Tesi che si appoggia a un versetto della Sacra Scrittura (Levitico 19:28) che reciterebbe: “Non farete incisioni nella vostra carne, ne farete tatuaggi su di voi”.
In realtà i cristiani delle origini si tatuavano abbondantemente con pesci e croci per sancire la loro conversione, come pure in epoche diverse lo facevano i combattenti per il Santo Sepolcro, volendo evitare che, se caduti in battaglia, i loro corpi non dovessero avere una cristiana sepoltura. Almeno cinque secoli fa i pellegrini al santuario di Loreto potevano usufruire di un servizio tattoo, svolto da appositi frati marcatori che incidevano sulle loro carni, come ulteriore prova di devozione, illustrazioni di santini perenni da portarsi addosso per tutta la vita.
La più recente demonizzazione del tatuaggio in Occidente è un regalo di Cesare Lombroso. Lo studioso delle tracce fisiche dell’istinto al crimine classificò con puntiglio un’infinità di tatuaggi, ripresi da tipacci di ogni categoria.
Per lui erano segni inequivocabili di appartenenza all’ “uomo delinquente”, come le sopracciglia unite o la fronte bassa. Per questa illustre certificazione “scientifica” di ogni pregiudizio in gran parte della nostra anima venero-perbenista ancora si agita la residua sensazione che si tatuino solo ex galeotti o marinai.
In realtà, nonostante lo avesse sancito l’illustre misuratore di crani, il tatuarsi non è assolutamente più considerato nel sentire generale un esclusivo esercizio da bassifondi. Una marea iconografica, che tracima tra rete e piattaforme digitali, ci ha tutti erudito come si tatuino abbondantemente, oltre a metallari di ogni generazione, anche camorristi, narcotrafficanti, affiliati alla Yakuza, ex mercenari, sterminatori seriali, vampiri o lupi mannari in genere. Nessuno però si meraviglia di vedere tribali coccigei ostentati da mamme che spingono passeggini per giardinetti, o scarnificazioni Maori sui polpacci di ragionieri inchiodati sul bagnasciuga.
Da quando tale segnatura del trasgredire è mutata in consuetudine popolar burina, non possiamo fare a meno di annoverarla tra le turbo pacchianate certificate, come fu a suo tempo per i sandali calzinati, la crosta di gel sui capelli, le spalline imbottite, i jeans bracaloni, l’elastico della mutanda oltre la cintura.
(pubblicato su “Specchio” domenicale de LA STAMPA del 18 luglio 2021)