Quando una madre uccide il figlio per paura che sia autistico
Una madre ha annegato il suo piccolo perché non tollerava l’idea che potesse avere un cervello fuori standard. Sembra che nessun medico le avesse consegnato una diagnosi di neuro diversità, eppure il solo supporre che, nella testa di quel figlioletto di due anni e mezzo, qualcosa non fosse nella norma, è bastato a quella donna per eseguire una sentenza di morte.
E’ sintomo di una profonda incapacità di gestire, con strumenti moderni, l’arcaico pregiudizio di cui è intriso il possibile disallineamento mentale di un proprio congiunto.
In tempi molto meno remoti di quello che si possa credere, qualora ci si trovasse a dover fare i conti con un figlio che, si capiva, non avrebbe proprio posseduto la percentuale minima di senno richiesta per non dare nell’occhio, si faceva internare in tutta fretta il più lontano possibile da casa, dove sarebbe restato per tutto il resto della sua vita. Non era raro che la famiglia inscenasse persino un finto funerale, unico suggello socialmente accettabile a quell’onta che avrebbe gettato, su tutta la stirpe, il sospetto di un “sangue malato”.
Per questo il fatto di Torre Annunziata non è solo il dramma di una famiglia, è rivelatore di una ben più estesa lacuna culturale, spesso difficile da individuare, perché circoscritta alla sola difficoltà di elaborare, in maniera “civilizzata”, la più indicibile delle possibili disabilità, che è quella mentale. Ho avuto più di un segnale di quanto siamo ancora attraversati da un limaccioso retro pensiero, ignorante e superstizioso; un residuo del vecchio mondo che, nonostante le belle apparenze e la brillantezza dell’argomentare, contamina persino chi ha il privilegio di una forte presenza nei media.
Non conto più le volte che, anche da illustri opinionisti, mi sia sentito dare dell’incapace di cogliere l’ironia, quando mi sono permesso di segnalare il loro uso incivile di termini come “bambino ritardato” o “autistico” e persino “mongoloide”, intesi come categoria dispregiativa per evidenziare la scarsa attitudine alla giusta comprensione della realtà, da parte di loro antagonisti ideologici. Per quanto possa essere a tanti fastidioso, il nostro progredire evolutivo è generato da un pensiero definito, anche con disprezzo, “politicamente corretto”. E’ la miglior definizione del nostro esserci alleggeriti da molti pregiudizi capaci di scatenare sofferenza, anche se sicuramente evoca distorsioni e forzature ipocrite, quando se ne abusa come dogma.
In realtà il “cervello ribelle” è ancora assai più ostico a digerire per il cripto benpensante di quanto lo sia il diverso comportamento sessuale e affettivo, la diversa provenienza geografica, il diverso colore della pelle.
Fa paura perché quasi tutti abbiamo il sospetto di essere noi stessi, o avere in famiglia, portatori occulti di qualcuno di quei segnali, che potrebbero fare di un essere umano libero, un individuo che una gran parte della collettività, anche se non lo dice apertamente, ancora preferirebbe “rinchiuso al sicuro”.
Ammetterlo è duro, sarà più facile per tutti pensare che tutto il problema dell’inaccettabile diversità mentale stia solo in quella mamma affogatrice.
Per stare tranquilli basta convincerci di essere parte della società dei savi, solo così nulla avremo da rimproverarci.
(LA STAMPA del 5/gennaio/2022)