Una pratica ascetica nella cancellazione della propria ombra digitale
FOTO PREDITTIVA: La mia prima traccia memorabile entra ora nella mia ombra digitale: è del 3 settembre 1954, avevo 20 giorni. In assoluto la prima foto della mia vita, il più antico fermo immagine di un attimo della mia esistenza. Quando ci sarà l’ ultimo potranno essere facilmente collazionate come Alpha e Omega. La zia svampita che dietro aveva scritto la data si era sbagliata e aveva messo l’ anno 1953, poi ha corretto. Si può dire che in assoluto questa immagine per un certo tempo ha preceduto la mia nascita
Il nostro esistere digitalizzati è un fardello ben pesante da portarsi dietro. Me lo ricorda con insistenza il mio smartphone quando mi segnala, oramai ogni giorno, che lo spazio a disposizione è quasi esaurito. È un modello abbastanza recente, dovrò però rottamarlo anche se perfettamente funzionante. I suoi 200 giga sono quasi interamente espropriati dalle app e non c’è più posto per foto e video. Svuoto quotidianamente le cartelle di WhatsApp, Telegram, Signal, Facebook, Instagram. Non faccio da tempo il backup delle mie foto personali, quelle che hanno un senso le pubblico nei vari mie social e l’onere della conservazione non è più a mio carico. Cancello in via definitiva, ammazzo senza pietà ogni frame d’iconografie digitali rappresentanti scelleratezze altrui che, soprattutto tra Natale e Capodanno, si concretano in pesantissime patacche piene di stelline e musichette che si mangiano memoria locale come piraña.
Sono arrivato solo recentemente alla posizione estrema del buttatore digitale, è stato per me un cammino ascetico, quasi un novello “contemptus mundi” che mi porta a astenermi da ogni blandizie auto gratificante. Ho rinunciato ai basilari quotidiani puntelli all’autostima, evitando accuratamente la produzione e condivisione di tutti classici appaganti stereotipi; rinuncio alle più allettanti digital pompe sataniche, come il piatto di pastasciutta fumante, il calice sollevato, il tramontismo in ogni sua declinazione, la podografia (quelli che si fotografano i piedi), la profilofila, la paesaggistica, la monumental-archivistica e ogni possibile categoria della contemporanea compulsione a trasferire, in un limbo di persistenza digitale, ogni brandello di realtà manifestata che non avrebbe, in tempi precedenti, meritato più di un fuggevole colpo d’occhio.
Confesso che sono stato per anni un tenace conservatore, ho una scatola piena di chiavette usb piene zeppe delle prime foto che scattavo con una mini macchinetta digitale da cui non mi separavo mai. Altre ancora sono quelle scattate con il fido Nokia aziendale del tempo che fu, queste ultime sembrano avere la qualità di dagherrotipi e hanno valore solo per quell’irrealtà ectoplasmatica che le fa sembrare frutto di un’evocazione medianica. Ogni tanto ci butto un occhio distratto e mi commuovo come i nonni davanti alle foto della loro lontana fanciullezza. Si badi bene è roba che al massimo avrà una decina d’anni, in alcune di quelle fotine asfittiche indosso abiti che ancora sono del mio odierno guardaroba, eppure mi sembrano appartenere a un’epoca lontanissima.
Dal primo smartphone in poi ho cominciato a riversare puntualmente le foto e i video in appositi hard disk esterni. La transumanza avveniva in media una volta al mese e ogni cartella aveva la data del download. Nel giro di qualche anno però ho capito quanto fosse inutile quell’operazione, niente più che una caritatevole sepoltura. Avere centinaia di cartelle con una data sopra non mi dice nulla dei contenuti, avrei dovuto dare delle indicazioni più precise per avere qualcosa che assomigli a un data base dei miei attimi vissuti. Ogni ricerca diventava una caccia al tesoro, alla fine buttavo le vecchie cartelle in una cartella fossa comune denominata “Tutto”. Quando sono arrivato alla cartella “Tutto 30” ho cominciato a buttare le cartelle “Tutto” nel triste ossario “Riassunto pulizia”, dove convergevano anche tutti i documenti che via via producevo, ricevevo, inviavo che si accumulavano sul mio desktop. È chiaro a tutto che ho terabyte di dati stipati in scatolette di plastica in cui non andrò mai più a mettere il naso, occupano poco spazio è vero ma non voglio pensare che siano come il gonnellino di Eta Beta da cui potrebbe uscire di tutto.
La precoce percezione dell’insulso accumulo la ebbi nel lontano 2008, rimasi allora colpito da un’inchiesta di Focus in cui si parlava per la prima volta di “ombra digitale”. S’ipotizzava già allora quale fosse la mole rappresentabile dei dati digitali che ognuno di noi produceva attivamente e passivamente ogni giorno.
Allora i social erano agli albori e gli smartphone merce rarissima, comunque di arcaica generazione visto che la rete GSM richiedeva tempi bliblici per trasferire dati. Mi sembrava comunque catastrofica la rappresentazione fisica che in quell’articolo era decritta riguardo ai i dati digitali prodotti al tempo nel mondo, si immaginava che se stampati avrebbero potuto costruire 12 pile di libri alte quanto la distanza tra la Terra e il Sole, (oppure una pila di libri alta come due volte la lunghezza dell’orbita terrestre) e si prevedeva che a tali ritmi di crescita, per il 2011 la pila avrebbe coperto due volte la distanza tra il Sole e Plutone, una cosa come circa 6 miliardi di Kmt56. Non voglio nemmeno immaginare a cosa potremmo essere arrivati oggi, come dato di paragone posso solo ricordare che al tempo il mio telefono aveva una memoria interna di 130 mb. Bastava scattare qualche decina di foto ed era piena.
Non voglio oscurare il sole con la montagna della mia ombra digitale che cresce alle mie spalle, la mia pratica catartica quotidiana è il salutare reset totale di ogni cascame nostalgico di vita riprodotta, che avrà catturato quel terzo occhio famelico che, da, anni è spuntato fuori dal mio palmo destro.
Gianluca Nicoletti (LA STAMPA del 9/01/2022)