Divergenti nella storia

La fragilità di Laura nel suo unicorno di vetro

“Lo zoo di vetro” di Tennessee Williams venne scritto e rappresentato per la prima volta nel 1944. Rispetto a “Improvvisamente l’estate scorsa”(1958) e a “La notte dell’iguana”(1961) è l’opera nella quale il personaggio femminile è più somigliante a Rose Williams, sorella del drammaturgo. Nel 2012 il prof. Clay Morton pubblicò un articolo[1] sulla rivista The Tennessee Williams Annual Review nel quale ipotizzò che Rose Williams, musa ispiratrice in questi tre lavori, fosse autistica.

LO ZOO DI VETRO E LA SORELLA AUTISTICA DI TENNESSE WILLIAMS

Personaggio principale del dramma è Laura Wingfield, una ragazza di 23 anni che vive con la madre Amanda e il fratello Tom; ha un evidente difetto fisico, una zoppia, che ha condizionato la sua intera esistenza rendendola molto riservata, taciturna, a tratti completamente avulsa dalla realtà circostante. Coltiva con maniacale attenzione una passione, quella di collezionare piccoli animali di vetro. La madre Amanda è ossessionata dall’idea di trovarle un marito, certa che l’altro figlio Tom non se ne occuperà quando lei non ci sarà più. Già dalle prime battute del dramma si viene catapultati nella realtà che affligge ogni genitore con figlio disabile – il dopo di noi – che per quanti sforzi si faccia, rimane ancora una grande incognita che logora lentamente.

Per porre un freno alle insistenze materne, Tom acconsente a trovare, tra i suoi colleghi di lavoro, un giovane che abbia voglia di uscire con sua sorella, ma allo stesso tempo consiglia la madre di non porsi troppe aspettative perché “Laura è molto diversa dalle altre ragazze […] è straordinariamente timida e vive in un mondo suo e tutto questo la fa sembrare bizzarra alla gente di fuori”. Più avanti Tom spiegherà meglio “Vive in un mondo per lei, un mondo di…fragili figurine di vetro…Suona al grammofono vecchi dischi”. Si capisce subito che questi interessi servono a Laura come meccanismi di compenso in situazioni di grande stress emotivo. Quando la madre scopre che, invece di andare a scuola di dattilografia, passa le giornate in giro per la città fino all’ora di tornare a casa, Laura “si avvicina al vecchio grammofono e lo carica”.

“Laura, hai mai amato un uomo?” È l’inizio della seconda scena e la frase non è pronunciata da nessuno, ma verrà ripresa più avanti dalla madre. Secondo le note dell’autore, Laura è seduta davanti ad un tavolino con sopra le figurine in vetro, che “lava e strofina”, un atteggiamento che si potrebbe definire compulsivo. Ben presto si capisce che Laura ha avuto una cotta per un ragazzo del liceo, un certo Jim, che frequentava con lei il corso di canto.

“He used to call me – Blue Roses”. Occorre fare riferimento al testo originale[2] in quanto lo scambio di battute che in seguito avranno Jim e Laura darà il senso a questo nomignolo e alla stranezza comportamentale della ragazza. Il soprannome è frutto di un fraintendimento, oltre che del banale conformismo del giovane che spinge a chiedere a Laura come mai non era stata presente ad alcune lezioni di canto. Per alcuni bellocci è importante avere sempre uno stuolo di ammiratrici adoranti, utili ad alimentare il proprio ego.

“I said pleurosis – he thought that I said Blue Roses!”

Amanda sorvola sul ricordo romantico di Laura, il suo unico pensiero è trovare una sistemazione per lei. “Nel sud ne ho visti di simili casi pietosi, siamo zitelle che vengono a malapena sopportate dalla moglie del fratello. Sarebbe questo il futuro che ci stiamo preparando?” È un pensiero che tormenta ogni madre, consapevole che nessuno amerà mai quel figlio o figlia dello stesso amore, che sopporterà quelle stranezze, trovando ogni giorno la forza di spiegarsele per poter sopravvivere a tanto dolore.

“Già, le brave ragazze che non sono nate per fare carriera, finiscono con lo sposare dei bravi uomini…Ed è proprio quello che farai tu, mia cara!” A questa affermazione della madre, Laura, sopraffatta dall’ansia, va subito a prendere una delle statuine di vetro; poi, senza una reale intenzione, si avvicina al grammofono. Sono molto importanti queste note di regia, come Williams dia delle indicazioni precise agli attori. Le reazioni, i gesti di Laura, sono gli stessi che lui ha visto in sua sorella Rose, il cui nome e riferimento è presente in tutto il dramma, seppur nel soprannome della protagonista.

“Ma io…sono zoppa!” dice Laura

“Non dire sciocchezze! …Laura, ti ho raccomandato mille volte di non usare mai, mai quella parola! Storie, tu non sei zoppa, hai soltanto un leggero difetto, lo si nota appena! Quando si han dei piccoli difetti come il tuo, allora si cerca di compensarli…” È facile pensare all’equilibrio che la natura sembra indurre negli idiot savant con alcune aree di eccellenza a compenso di quei limiti, fonte di disagio ed emarginazione.

Per fermare le continue pressioni della madre, Tom invita a cena un collega di lavoro, e il caso vuole che sia proprio quel Jim di cui era innamorata Laura. In casa l’atmosfera si fa subito pesante: da un lato Amanda che vuole che tutto sia perfetto così da favorire l’innamoramento del giovane, dall’altro Laura sconvolta dal ritrovarsi faccia a faccia con lui e frastornata dalla confusione per i preparativi. Per calmarsi si rifugia nuovamente al grammofono.

Dopo l’entrata in scena di Jim, l’improvvisa indisposizione di Laura, che non riesce a sostenere il carico emotivo e si nasconde in camera disertando la cena, la narrazione sembra procedere tranquillamente e i due ragazzi si ritrovano a chiacchierare. È il pezzo più importante di tutta l’opera ed è un peccato che nella versione italiana ci siano delle omissioni ed errate traduzioni. Jim chiede a Laura se il soprannome Blue Roses non l’avesse creato dispiacere.

“Oh, no – I liked it. You see, I wasn’t acquained with many – people…”

“As I remember you sort of stuck by yourself”.

Stuck – bloccata, rigida – migliore aggettivo non poteva essere scelto per tratteggiare  atteggiamento e comportamento di una persona con neurodiversità, così poco incline ad essere ragionevole e malleabile.

Più avanti Laura fa vedere a Jim la sua collezione di statuine di vetro. Tra queste c’è un unicorno.

“Unicorns – aren’t they extinct in the modern world? […] Poor little fellow, he must feel sort of lonesome”. La diversità ha in sé qualcosa di fantastico, non conformato alla realtà, difficilmente compreso e, per questo, causa di emarginazione e solitudine. La risposta di Laura è quanto Tennessee Williams pensa della situazione di sua sorella Rose che, sebbene sola, non se ne dispiace, forse perché non ne ha completa consapevolezza. Come l’unicorno che sta sul tavolo insieme agli altri cavalli “senza corna”, così Rose, fragile come una statuina di vetro, vive la sua vita con i neurotipici.

Un movimento brusco di Jim fa cadere l’oggetto che si rompe perdendo il corno. “Adesso è un cavallino come gli altri – dice Laura – Penserà che abbia avuto un’operazione. Gli han levato il corno così si sente meno…eccentrico”. L’opera, scritta poco dopo la lobotomia fatta allo scopo di rendere Rose Williams proprio come gli altri cavalli, raffigura la sua eroina neurodiversa come una fragile vittima di ciò che Lennard J. Davis ha chiamato “la tirannia della normalità”.

Jim, che ha sempre pensato che la naturale ritrosia di Laura fosse espressione di scarsa fiducia in se stessa, alla fine deve ammettere la sua diversità mostrando però una grande profondità di pensiero, un’intuizione sugli aspetti positivi della neurodiversità. Ciò che dice, è ciò che Tennesse Williams crede, è ciò che vuole che la sorella Rose sappia.

“Le persone diverse dagli altri non sono come gli altri ma non hanno da vergognarsene. Perché gli altri non sono così meravigliosi. Sono cento volte mille. Tu sei una. Loro camminano per il mondo. Tu rimani qui. Loro sono comuni…come erbacce ma…tu…beh, tu sei…Blue Roses!”

“Ma il blu è sbagliato per…le rose” dice Laura

“È giusto per te! Tu sei…bella!”

Nel finale Tom, che è la voce narrante del dramma, spiega al pubblico i suoi inutili tentativi di fuggire dal ricordo della sorella e dalla colpa devastante per averla abbandonata.

“Oh, Laura, Laura, ho provato a lasciarti dietro di me, ma sono più fedele di quanto pensassi di essere!”

Ancora una volta l’autore usa uno dei suoi personaggi per spiegare, comprendere e perdonare le proprie debolezze. Solo l’arte consente di fare questo e trasformare il dolore, il senso di colpa, in bellezza.

[1] Morton, C. “Not like all the other horses: neurodiversity and the case of Rose Williams” The Tennessee Williams Annual Review (2012) 13, 3-18

[2] A tutt’oggi il testo italiano è quello del 1963, curato da Gerardo Guerrieri

GABRIELLA LA ROVERE

Redazione

La redazione di "Per Noi Autistici" è costituita da contributori volontari che a vario titolo hanno competenza e personale esperienza delle tematiche che qui desiderano approfondire.

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