La festa dei paparini
Detesto il 19 marzo nella sua declinazione di “festa del papà”. Il riconoscimento di un padre è un atto di fede che non può vincolare a vita. Non trovo nemmeno troppo giusto che l’unico giorno all’anno dedicato alla paternità sia quello che ricorda un santo che padre lo è stato solo per procura. L’unico padre da festeggiare penso sia quello che ci permette un (simbolico) parricidio senza lasciarci addosso sensi di colpa. Proprio per liberarmi di questa pesante nomea di padre esemplare (che non sono) riporto qui il mio pensiero aggiornato su questo tema. La prima riflessione la potete ascoltare dal podcast “Padri infami” che è il mio contributo al progetto “Con voce di padre” di Radio24:
ASCOLTA IL PODCAST “PADRI INFAMI”
La seconda riflessione è sviluppata in questo mio pezzo uscito giorni fa su La Stampa.
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Confesso di detestare il paparinismo nella sua smollicchiata versione contemporanea. I paparini per fortuna sono solo lo sbiadito ologramma della paternità del passato millennio, quella che sembrava esistere solo per divorarsi i figli in lente e inesorabili masticazioni, capaci di perdurare persino a babbo morto.
Il paparino però è pure la profezia vivente che anticipa una generazione di orfanelli precoci. I figli senza padre possono secondo me anche crescere in autonomia e consapevolezza, i figli di un paparino non cresceranno mai; restano embrioni perenni, fusi a vita con il portatore di quello spermatozoo con l’aiutino che, dopo periglioso vagabondare, è arrivato stremato alla generazione di un nuovo umano.
Immagino legioni di paparini cinguettare come cinciallegre nell’ostensione del pannolino dei loro teneri derivati, non si confonda con l’auspicabile fine dei ruoli arcaici nello svezzamento e l’allevamento di un cucciolo bipede.
È puro manierismo, Il paparino si era già allenato ai giardinetti a trasportare in vezzosi sacchettini biodegradabili le cacatine del suo cagnetto. Per lui è la stessa cosa, un essere senziente da portare a spasso che lo faccia sentire parte di una comunità.
La comunità dei Paparini si sovrappone a quella dei frequentatori del parco bau. Pensano di poter portare a spasso in un’eternità congelata il loro capolavoro; il cagnolino alla fine invecchia e muore ma il figlio cresce alla svelta e comincia a odiarci.
Il paparino non immagina di dover gestire un giorno il sano odio filiale, quel sentimento salvifico che ci affranca e dovrebbe addestrarci all’autonomia. Qui è il vero punto di caduta di ogni paternità, vecchio e nuova; mostrare coraggio nel lasciare che nostro figlio ci uccida per poter finalmente iniziare a crescere.
Ora inizio ad avvertire il moto di rivolta dei classici rappresentanti vip del paparinismo; si chiederanno sgomenti cosa mai io qui stia ipotizzando. Forse intendo che Il padre migliore sia colui che accetta consenziente il parricidio, magari pure senza smetter di amare il proprio figlio?
Esattamente questo: un padre non si valuta quando si fa i selfie gongoloni con grandi occhioni. Son bravi tutti a farsi belli stropicciando chi ancora non ha strumenti cognitivi e verbali per rinfacciarci quanto siamo stronzi. Si noti che, quando i figli crescono e giustamente fanno anche sonorissime e deturpanti scellerataggini, i paparini evaporano, o balbettano e non di danno conto.
La vera tragedia cosmica della delusione avviene però nella categoria più equivoca di questa versione della paternità che chiameremo “paparino alpha”. Costui è una contraddizione vivente perché applica la paidoidolatria del paparinismo classico, inserendola però in una dimensione scaramazza, dove s’intravede il baluginare di tradizionali virtù putrefatte.
Il paparino alpha deve essere uomo al cento per cento, deve ostentare ritualità e simboli di culto, deve invocare i figli ogni volta che si sente sotto attacco, deve parlare di valori di tradizione di regole. Che poi ci creda e ne faccia professione di vita non importa. Sempre paparino resta e sempre incapace di attrezzarsi alla gestione dei figli sulla via della cazzata. Troppo concentrato su sé stesso per farlo.
Naturalmente parlo di paternità nell’ambito sociale e culturale in cui si esprime chi scrive e commenta opinioni sui giornali. Anche io come tanti colleghi ho scritto libri e libri sulla mia esperienza di paternità, è probabile che per qualcuno sia anche visto come modello di padre sublime, solo perché faccio salti mortali per portare alla semplice dignità di cittadino un figlio disabile grave. Non mi vergogno però di ribadire quello che ho sempre pensato, pure scritto a volte. Io non ho mai sentito desiderio o bisogno di essere padre. Ho generato due figli perché questo mi aveva chiesto la loro madre, devo dire senza nessun entusiasmo. Quando però sono venuti al mondo mi sono sempre occupato di loro e sempre me ne occuperò, fino a che ci sarà bisogno.
Questo non vuol dire essere eroi è normale. Penso ci si senta padri, non paparini, quando si riesce a rendere autonomi i nostri figli, quando si fornisca loro il viatico per lasciarci alle loro spalle, senza sensi di colpa o rancori. Quando si faccia pace con l’ipotesi di poter restare soli e reietti senza che un figlio si senta in dovere di modificare i suoi progetti per pensare a noi. Noi siamo l’humus su cui la pianta nuova deve alimentarsi, non possiamo pensare di usare il ricatto affettivo come diserbante per i loro sogni, fossero pure dissennati.
I nostri figli sono la nostra trappola per la morte, noi vivremo in loro anche quando organicamente saremo liquefatti. Perché questo passaggio avvenga quelli a cui è capitato di diventare padri devono scomparire.
È davvero difficile combattere con il possibile odio verso il figlio “ingrato” che potrebbe assalirci in questa fase. Questo è il momento più atroce, solo chi arriva a viverlo e uscirne sereno potrà dirsi di essere stato padre.
Nessuno è obbligato a farlo, essere padre non è una vocazione ma il residuo del nostro atavico istinto a dover coprire più femmine possibile e poi scappare via. Da due milioni di anni abbiamo però perso il “baculum”, l’ordigno che ci sosteneva in questa faticosa necessità di dovere popolare il mondo. Finalmente siamo liberi di scegliere, alla fine era solo un osso penico a suggellare questa nostra missione di paterna coercizione.
(LA STAMPA 3 marzo 2022)