Parlare dei problemi di salute mentale fa ancora paura?
Anche l’ultimo lungo periodo di feste è finito nel dimenticatoio da almeno una decina di giorni, ora possiamo riflettere su quanto in quel buco fagocitante finiscano anche le esperienze più difficili. Viene raccontata una realtà che sembra non appartenerci. Dove è finita la magia dell’attesa, la gioia di trascorrere le festività con amici e parenti in interminabili tombolate e mercante in fiera su tavole ancora con le briciole, le macchie di sugo e i bicchieri di vino?
Da qualche anno il servizio Telefono Amico ha istituito una vera e propria maratona di ascolto e sostegno che va a coprire tutta la notte di Natale e Santo Stefano, dalla quale è emerso un aumento importante delle richieste di aiuto psicologico, ben il 78% in più rispetto al Natale 2019, quello prima della pandemia. Le persone si sentono sole, incapaci di gestire lo tsunami psichico che si è abbattuto con il Covid, spartiacque tra un prima, che non sarà mai più, e un dopo così oscuro e difficile. I servizi territoriali della salute mentale sono carenti di personale, questo anche prima del 2019, e sicuramente il bonus psicologo è la solita pezza politica che non risolverà la questione, ma che metterà a tacere la coscienza sociale.
La letteratura scientifica è piena di lavori che vanno ad analizzare le conseguenze neuropsichiatriche da Covid-19. Si parla di effetti diretti dell’infezione, di quelli reattivi dell’organismo, di quelli a lungo termine, tra cui le conseguenze psicologiche relative all’isolamento e alla paura per la propria salute. Ognuno di noi, chi più chi meno, ha dovuto affrontare la sindrome da stress post-traumatico con attacchi di ansia e insonnia. C’è chi l’ha superato e chi no e la cronaca è sempre piena di cattive notizie.
Il virus, oltre ad avere uno spiccato tropismo per l’apparato respiratorio, attacca il sistema nervoso centrale con mal di testa, parestesie, modifiche dello stato di coscienza. Secondo studi fatti, maggiore è la severità del Covid-19, più grandi sono le complicanze neurologiche con sintomi simili alla stanchezza cronica, vertigini e con disturbi cognitivi di lunga durata. Alla dimissione, il 33% dei pazienti ha presentato sindromi disesecutive (o sindrome frontale) caratterizzate da grave compromissione delle abilità cognitive, emotive, comportamentali e da una lieve compromissione delle abilità sensopercettive, comunicative e motorie. A tutto questo bisogna aggiungere che quanto emergerà negli anni a seguire avrà bisogno di tutta l’attenzione possibile. La persistenza dell’anosmia ipotizza un importante coinvolgimento cerebrale che potrebbe avere conseguenze su possibili infezioni e malattie neurodegenerative future.
La pandemia ha avuto un grande impatto su bambini e adolescenti. Lo scorso novembre un sondaggio dell’Unicef ha evidenziato una realtà a dir poco agghiacciante: nel mondo un adolescente ogni 11 minuti si suicida, il 50% si sente triste e il 41% non chiede aiuto, perché pensa di non essere capito e per la paura dell’etichetta di malato mentale.
È un’impresa ciclopica quella ci troviamo ad affrontare se vogliamo salvarci, se non vogliamo lentamente scomparire. Coinvolge tutte le figure della sanità, ma ha bisogno di uno sguardo diverso sulla salute mentale, di maggiori risorse territoriali, di personale qualificato e monitorato per evitare pericolosi burnout, di una società più empatica, aperta alle diversità come valore aggiunto. Ognuno dà quello che può e come può. Ricordo figure della mia infanzia, donne con ritardo cognitivo, che facevano parte di nuclei familiari nei quali svolgevano servizi a loro più congeniali, assolutamente utili pur nella loro semplicità.
La salute mentale è un argomento che fa paura perché ancora gravato dall’immagine del pazzo con gli occhi allucinati, sporco e fuori controllo. Il disagio psichico è una condizione che colpisce ognuno di noi in diversa forma e intensità. Per ognuna di esse è importante l’ascolto (che non è sentire!), sentirsi accolti, poter condividere il peso di una delusione, di una sofferenza con qualcuno, perché il carico emotivo si dimezza e tutto sempre meno grave. Occorre ribaltare l’attuale condizione che ci vede immersi in una realtà tecnologica, sempre più isolati ed in grado di comunicare solo con messaggi WhatsApp. Dobbiamo riscoprirci umani che è da sempre l’avventura più bella.
Gabriella La Rovere