Verso un’etica dell’autismo
Le due figure più importanti nell’autismo – Kanner e Asperger – hanno avuto concetti differenti riguardo la sua essenza. Sebbene i bambini da loro descritti avessero le stesse caratteristiche fenotipiche, per Kanner l’autismo non era che un disturbo psichiatrico, mentre per Asperger si trattava di qualcosa profondamente radicato nella personalità, un aspetto che faceva parte dell’individuo, a partire dalla nascita fino alla morte (in questo è stato un anticipatore del concetto di neurodivergenza!). Quale poteva essere il loro punto di contatto? L’accettazione da parte della società, che alimentava l’autostima e portava alla felicità, ottenuta con la “cura” sia intesa come uso di farmaci, che come pratiche educative, allo scopo di “normalizzare” l’individuo. Solamente nell’ultimo decennio, molti ricercatori hanno abbandonato il concetto di autismo come di qualcosa che dovesse essere modificato.
Diagnosticare l’autismo, cambia la vita della persona. La ricercatrice belga Kristen Hens riporta il caso di una donna di 52 anni alla quale venne comunicato la sua neurodivergenza pochi giorni prima il loro incontro. La scoperta la sconvolse e, in qualche maniera, pensò a sé come ad una persona malata: “se ce l’ho, è anche una situazione di perdita perché io, io voglio essere in grado di comunicare correttamente”. La donna aveva avuto un’infanzia impegnativa, i suoi genitori la maltrattavano. Si era sempre chiesta se i problemi che aveva con gli altri fossero dovuti al suo passato problematico o al fatto che era diversa.
Per quanto la diagnosi ponga fine a disagi, incomprensioni, fraintendimenti, porta con sé un carico emotivo che ha bisogno di essere analizzato, compreso e accettato “Ottenere una diagnosi è stato un sollievo. Non mi butto giù tutto il tempo…non mi biasimo così tanto. Voglio continuare a crescere e lavorarci. Non è che mi arrendo tipo non potrò mai, no, voglio poterlo fare ma se non ci riesco, non mi punisco. In realtà sono diventata più rilassata” Sapere di avere una condizione innata, libera la persona dal dovere essere come gli altri, restituendo la felicità a lungo ricorsa per compiacere ed essere accettata.
La diagnosi di autismo in età adulta cambia anche i rapporti che gli altri hanno con la persona neurodivergente. Uno studio condotto da Matthew Lebowitz e Woo-kyoung Ahn ha evidenziato una minore empatia dei professionisti della salute come se la diagnosi li avesse liberati dall’essere necessariamente comprensivi, strettamente aderenti al giuramento di Ippocrate. Gli autori suggeriscono che questo sia dovuto alla convinzione che le persone neurodivergenti siano meno umane e più controllate dai geni.
La genetica ci porta inevitabilmente nel campo difficile e impegnativo della bioetica. L’autismo è per il 10% secondario o sindromico (sclerosi tuberosa, sindrome X fragile, sindrome di Rett, sindrome di Angelman, sindrome di Joubert). Attualmente è possibile lo screening prenatale non invasivo (NIPT) basato sul DNA, che analizza la probabilità che il feto sia affetto dalle più comuni anomalie di numero dei cromosomi non sessuali: trisomia 21 (sindrome di Down), trisomia 18 (sindrome di Edwards) e trisomia 13 (sindrome di Patau). Non si può non essere consapevoli che, allo stato attuale, sia necessario un allargamento delle patologie genetiche indagate, soprattutto quelle responsabili delle forme sindromiche dell’autismo. Si tratta di malattie che possono avere variabilità di espressione e che, nella maggior parte dei casi, condizionano pesantemente la vita dell’individuo e della famiglia, soprattutto alla luce di una carenza ormai cronica dei servizi alla persona. Sono malattie multiorgano con sintomatologia ed evoluzione clinica grave, difficile da far comprendere ed accettare ad una persona con disturbi dello spettro e ridotta capacità cognitiva. Inoltre, non tutti i genitori sono in grado di sostenere il peso di una cura così complicata ed articolata e la cronaca non manca mai di informarci di gesti estremi.
Nel passaggio al Terzo Millennio, ognuno di noi si è predisposto a vivere qualsiasi tipo di cambiamento la scienza ci avrebbe messo davanti. In questi anni (siamo vicini al quarto di secolo!) la ricerca sull’autismo ha portato a definire il ruolo dei geni e dell’epigenetica, ne ha cambiato lo sguardo d’insieme introducendo i termini di neurodivergenza, neurodiversità e neurotipicità con i quali dialogare. Sono perciò maturi i tempi per parlare e confrontarsi con l’etica dell’autismo, così come è stato fatto con i grandi cambiamenti sociali.
Gabriella La Rovere