Memorie di un pazzo
Ho riletto dopo anni il racconto “Memorie di un pazzo” di Gogol allo scopo di penetrare ancora di più nella descrizione letteraria della neurodiversità, termine che per me racchiude tutte le infinite variabili della mente umana.
Aksentij Ivanovic è un modesto impiegato addetto a fare la punta alle matite del mega-direttore-burocrate. Il servilismo che induce e consacra l’arroganza del potente non può non riportare alla mente la figura di Fantozzi, anche lui invisibile, ignorato, deriso dai colleghi e invaghito, senza speranza, della signorina Silvani che forse sa e fa finta di non capire, così come la figlia del burocrate russo.
La storia non comincia bene per il protagonista che si sveglia tardi e arriva tardi al lavoro; lungo la strada incrocia la carrozza del direttore dalla quale scende la figlia. Se ne innamora guardandola e, a quel punto, il delirio comincia a prendere forma, probabilmente innescato da emozioni non controllabili su una mente fragile. Annota nel suo diario che pensa di aver sentito due cani parlare tra loro (una è la cagnetta di lei); in un primo momento ne è meravigliato, ma immediatamente ricorda la notizia di un pesce parlante e di due mucche che, in un negozio, avevano ordinato una libbra di tè. E questo lo tranquillizza e gli consente così di “accomodarsi” nel delirio.
Aksentij pensa di poter ottenere tutte le informazioni sulla giovane donna, su quello che fa, ma soprattutto su quello che pensa, dalle lettere che si scambiano i due cani. Riesce ad impossessarsene e anche a fare una analisi letteraria. Uno stile molto diseguale. Si vede subito che non l’ha scritta un uomo. Comincia per bene, come si deve, e finisce da cane.
Dalle lettere scopre la scarsa considerazione che tutti hanno di lui, a partire proprio dal cane (!) e le imminenti nozze della ragazza con un gentiluomo di camera, l’anonimo kamer-junker del racconto.
Le emozioni provocate da queste informazioni lo sconvolgono ulteriormente. È l’inizio della fine, evidente dalla data sul diario: anno 2000, mese di aprile, giorno 43. Contemporaneamente, la notizia delle difficoltà nella successione del re di Spagna fa precipitare una situazione già precaria dalla quale, alla spasmodica ricerca di una soluzione, ne emerge con la sola via d’uscita possibile, ovvero sostituendo se stesso al re di Spagna.
In Spagna c’è un re. È stato trovato. Questo re sono io. […] Non capisco come è stato possibile che io pensassi e mi immaginassi di essere un consigliere titolare. Come è potuto entrare nella mia testa un pensiero così strampalato? È una fortuna che nessuno abbia pensato di mettermi in manicomio.
A questo punto comincia a firmarsi come “Ferdinando VIII” e trasforma la sua divisa da impiegato in un manto regale. Così vestito viene accompagnato nell’unico luogo possibile: il manicomio, appunto.
Nel racconto è presente una dettagliata descrizione della schizofrenia che porta a supporre che lo scrittore abbia unito sue esperienze dirette con altre suggestioni letterarie, probabilmente da Hoffmann. La prima domanda che un tale scritto pone è: quali sono le memorie di un folle? Sono un resoconto fedele alla realtà o sono già patologiche? La follia è innata o secondaria ad una fragilità emotiva? E in questo ultimo caso, quanta influenza può avere una società poco inclusiva, tendente all’uniformità perché meglio controllata? Anche i pazzi, pur nella universale neurodiversità, fanno parte della categoria dei diversi, di chi è altro rispetto allo standard, di chi, usando una frase contemporanea, rappresenta una parte del tutto, della cosiddetta normalità. Ogni loro gesto, pensiero, viene interpretato alla luce della malattia, e quindi non considerato, svilendone l’essenza: quella di essere umano.
Gabriella La Rovere