Quando parlavo di macchine delle meraviglie
Durante una delle mie notti senza sonno sono incappato in una pagina on line che trascrive un mio intervento alla Camera. Non c’è alcuna indicazione di contesto, dal lik deduco che si trattava di un mio intervento a braccio fatto durante un convegno presumo sull’infanzia il 15 aprile 2002, ero ancora un direttore Rai, vestivo in grisaglia e mi portava in giro un autista. Ero un’altra persona e era una vita che non più mi appartiene.
Mi fa pensare quanto a distanza di più di un ventennio sia cambiato io e sia cambiato il mondo, eppure sembra tutto così vicino perchè tutto è reperibile nell’illusione di un indefinito presente. Allora non esistevano i social, gli smartphone, la fibra, il 5g. Non ci si scambiava video, foto, documenti. Tutto era primordiale rispetto oggi. Eppure sembra ieri: il tempo dell’evoluzione digitale ha qualità differente rispetto al tempo a cui tradizionalmente l’umanità era abituata dall’inizio della storia. Già allora parlavo di relazioni in rete, erano incursioni che facevo con Barbara Alberti perchè volevamo scrivere un libro sulle mistificazioni amorose in Net Meeting. Non si fece mai.
Mi ha però tanto divertito il mio escamotage di farmi beffa del parterre inventandomi un’ardita supercazzola. Lo facevo spesso e quasi sempre ero fuori del mio ruolo, potevo mai esserci d’altronde? In questo caso però presumo che mi sarò trovato a dovere sostenere il punto di vista del servizio pubblico, che itstituzionalmente rappresentavo, di fronte una platea che si sarebbe aspettato da me una dura prolusione sui pericoli della tecnologia per la crescita dei bambini. Sicuramente allora li delusi. Deludo sempre chi da me si aspetta probità e ben pensare.
Io vorrei iniziare parlando delle macchine delle meraviglie, perché in fondo il paradosso di cui mi sono accorto, ascoltando gli altri interventi, è che noi stiamo parlando di macchine usate come passatempo, come gioco o per lo meno create per essere giocattoli, per impegnare il tempo libero, che stanno lentamente erodendo e corrodendo quello che è il tempo dell’attività, il tempo del lavoro. Ci condizionano dunque più le macchine che abbiamo pensato per passare felicemente il nostro tempo libero, che le macchine con le quali ogni giorno abbiamo un contatto diretto e costante per svolgere attività professionali, una sorta di paradosso post-luddista, per il quale l’uomo rischia di essere alienato non dalle macchine con cui deve lavorare, ma da quelle con cui “deve comunque” giocare.
Io, negli ultimi dieci anni, ho osservato con attenzione tutte le macchine e le meraviglie a nostra disposizione e ho capito quanto in fondo l’uso atipico di queste macchine crei la vera meraviglia. La forzatura di una tecnologia oltre i limiti d’uso per cui è stata progettata, crea la vera l’irruzione del meraviglioso, ma allo stesso tempo favorisce l’evoluzione delle stesse macchine che si specializzano e maturano solo se usate oltre i limiti. Il telefono cellulare ha oggi il suo boom come strumento di scambio di messaggistica scritta e di piccole illustrazioni in grafica elementare, ma era nato come un’espansione del telefono fisso che a sua volta nasce come uno strumento per comunicare tra imbarcazioni e terra ferma. Insomma la deriva imprevedibile delle macchine affina il loro rapporto con l’umanità.
Vorrei fare un esempio, che mi è venuto in mente proprio ascoltando i miei colleghi. Io ho davanti a me un traduttore simultaneo, potrei provare il passatempo di ascoltare me stesso tradotto in lingua inglese. Ma sarebbe ben poco se in questo momento non volessi coinvolgere una persona che appartiene a una rete parallela, che viveva fuori dal circuito di comunicazione, attraverso cui noi ci stiamo relazionando. Questa persona che vorrei coinvolgere è la signora con la giacca a scacchi che sta nella cabina della simultanea alle mie spalle; da ora, suo malgrado, è diventata protagonista e deve in tradurre me che parlo di lei, probabilmente questo le pesa, se interviene sul fatto di essere stata chiamata in causa di persona, lei esce dai suoi mandati professionali, quindi sta traducendo me stesso che parlo di lei, della sua perfetta pronuncia, della sua giacca a scacchi.
Quasi nessuno della platea che mi ascolta però ora condivide con me il divertimento di sentire la voce di questa signora iper professionale al punto di non contaminare la sua perfetta traduzione partecipando emotivamente a questo gioco. Nessuno, tranne una sola persona in questa stanza, che è la signora seduta tra il pubblico di fronte a me, che è l’unica ad avere la cuffia perché è l’unica straniera presente qui. Lei fino ad ora era isolata dal contesto di comunicazione perché noi parlavamo tutti l’italiano, lei era l’unica a usufruire della traduzione simultanea in inglese perché è l’unica ad avere la cuffia.
Infatti la signora straniera che era necessariamente isolata ora sta sorridendo perché si sta rendendo conto di essere stata coinvolta in una nuova rete di comunicazione, è stata tirata fuori dal suo isolamento, io sto usando in maniera impropria questa macchinetta fatta per uso semplicissimo, quello di permettere a chi non conosce l’italiano di seguire in inglese i nostri discorsi; in questo momento ho quindi creato un network, ho creato una relazione fra me, la signora affascinante alle mie spalle, la signora affascinante di fronte a me con la cuffia, abbiamo creato una rete parallela, noi stiamo comunicando in qualche maniera, usando impropriamente lo strumento che oggi mi era stato messo a disposizione semplicemente per fare questo tipo di convegno. Il fascino di cui parlo è attribuibile naturalmente più all’eterodossia della modalità di comunicazione che a circostanze oggettive. Questo per dimostrare che in fondo le macchine delle meraviglie, perdono questa loro possibilità di meravigliare quando vengono chiamate mezzi di comunicazione o ancora di più la perdono quando diventano oggetto di interpretazione, di studio, che giustamente e lecitamente investe l’Accademia, ma allontana, o per lo meno rende difficile la possibilità di una reale esperienza sul potenziale di queste macchine e sul loro uso sociale.
E’ stata evocata la televisione, non si può fare a meno di nominarla dato che oggi si parla di nuove tecnologie comunicative come di filiazioni improprie della televisione, io non sarei del tutto d’accordo anche se nell’immaginario comune tutto ciò che trasmette immagini è figlio della televisione, ma la rete sarebbe meglio considerarla per gli aspetti di differenza con la televisione piuttosto che per le similitudini.
La televisione nasce come un surrogato quotidiano domestico del teatro, se la osserviamo nel suo hardware, nella sua costituzione meccanica, la televisione degli albori doveva mimetizzarsi nel salotto della casa, era fatta in radica, doveva nascondersi perché si sentiva il forte pregiudizio di essere una macchina delle meraviglie, che non aveva nulla a che fare con la rigida austerità di un salottino medio borghese in cui veniva introdotta, quindi ancor di più veniva mascherata, coperta con una tendina, quasi le famiglie pensassero e avessero idea che da quella televisione potesse uscire fuori qualcosa che esse non avrebbero più controllato. Infatti, oggi non solo non controlliamo la televisione, ma la televisione ha deviato completamente il motivo della sua nascita, vale a dire di essere stata creata appunto come un medium ossia un evocatore di immaginario. Oggi il pubblico della televisione non considera più un mezzo la televisione, ma la considera un fine.
Nella televisione bisogna collocarsi, bisogna entrare, conquistare spazio, la televisione è l’oggetto che certifica la nostra esistenza, la nostra realtà, sancisce i nostri meriti, anche se ne possediamo una scarsa misura, autonomamente, al di là di chi voglia o possa controllare, pensare, immaginare i contenuti della televisione. Ormai è un discorso vecchio, trovo molto “retro” parlare di professionalità riguardo alla televisione, questa si fa da sola da anni, non ha più bisogno di un pensiero forte al suo interno perché il pensiero forte è essere lei stessa un sostituto alla realtà.
Oggi il palinsesto televisivo è tenuto in piedi dalla velleità del pubblico della televisione di collocarsi all’interno della stessa, la televisione riproduce specularmente la realtà umana, banale nelle sue abiezioni e nei suoi splendori. Più la realtà esterna si sente rappresentata dalla televisione più tende ad entrarci dentro, perché lì si è qualcuno senza essere nessuno, anche la propria vicenda personale individuale può entrare a far parte di una vicenda collettiva. Sarebbe del tutto innocuo se ci si fermasse a questa fase, ma poi la televisione in realtà non presenta un modello neutro, ma piuttosto dei correttivi, dei cambiamenti continui sul modello umano che rappresenta.
Mutazioni da prima impercettibili, diventano sempre più sostanziali quando poi la specie umana cerca di identificarsi quanto più possibile al modello televisivo, noi siamo circondati da persone che operano delle forzature abnormi nelle loro fattezze corporee ma non ce ne rendiamo conto, perché sono dei modelli fisici mutati per avere una loro presenza, una loro vivacità sotto la luce, sotto le angolature, sotto le ottiche della televisione. Le stesse mutazioni sotto l’occhio della realtà; sono delle terribili deformazioni, questi uomini con i capelli corvini nonostante abbiano oltre sessant’anni, queste donne dalle ridondanze abnormi, sono grottesche viste per strada e invece passano per bellissime nell’empireo televisivo. Tutto questo appartiene alla generazione di adulti di cui in fondo sono esito i bambini virtuali di cui stiamo parlando e quindi probabilmente la riflessione da fare è questa: virtuale è la famiglia che circonda il bambino, che si dovrebbe muovere tra questi mezzi di cui poco se ne sa e poco si immagina.
Chi ha dei bambini da quattro a sei anni da seguire nell’età del primo approccio al mondo dell’informatica, della rete, della navigazione, dei videogioco, sa benissimo che il sancta sanctorum domestico si sta spostando lentamente dal salottino con l’angolo della televisione, alla stanza dove il papà e la mamma lavorano fisicamente con un computer. Io che lavoro alla macchina delle meraviglie per molto tempo della mia giornata ormai ricevo e gestisco i miei bambini nel luogo dove lavoro, una rete casalinga, dove c’è il computer, che serve per il lavoro del papà e quello con cui giocano i bambini.
Il loro addestramento e la loro educazione procede attraverso queste macchine, non potrei fare a meno di far passare la loro esperienza attraverso queste macchine, ma allo stesso tempo stare attento e trasferire quello che voglio comunicare ai figli. Fino a qualche generazione fa abbiamo raccontato il mondo ai bambini attraverso strumenti e rappresentazioni simboliche della realtà che potrebbero essere la favola, il disegno, i primi cartoni animati visti assieme, i libri illustrati e alcune modalità anche lievemente più realistiche, come particolari giocattoli che riproducevano utensili per adulti per lavorare, ma anche per combattere. Dalla paletta e secchiello al piccolo chimico, al monopoli alle armi giocattolo. Oggi tutto ciò è travasato nel computer. Il computer non è soltanto la versione più avanzata del gioco che diventa videogioco, è metafora meravigliosa invasiva, ma penetrante e immaginifica allo stato assoluto per far comprendere quelli che sono gli aspetti più propri della favola a un bambino in maniera veloce, perché il bambino deve abituarsi che oggi il tempo richiede una contrazione, che occorre velocizzare tutto, è inutile pensare di imporre i nostri tempi di apprendimento ai bambini, i quali senz’altro ci sorpasserebbero.
Occorre avere comunque degli strumenti di gestione di queste macchine, che però vanno al di là dei piccoli tecnicismi del saper usare appunto i sistemi software, ed è quindi necessario capire di cosa si tratta, si deve gestire una nuova area della propria emotività. Io penso che, osservando il fenomeno, e non credo di dire proprio una bestialità, la prima causa di adulterio nella classe media, impiegatizia, professionale non sarà più la frequentazione del compagno di scrivania, del vicino di casa o dell’amico della moglie o dell’amica del marito, ma sarà il frequentare i luoghi di comunicazione virtuale.
Io ho fatto esperienze molto forti in questo campo, addirittura per un periodo ho navigato insieme a una mia amica scrittrice, volevamo fare un romanzo su questo, poi abbiamo visto che la realtà può superare ogni possibile immaginazione, trovo che la maniera di relazionarsi tramite la rete è una maniera totalmente nuova e sconvolgente, perché avvicina tutti i passaggi che normalmente noi conoscevamo nella relazione con l’altra persona. In una mezz’ora circa, se una persona ha una buona esperienza, conosce il mezzo, ha una capacità di intuizione, di introspezione, ma anche una buona maniera di esprimersi attraverso la letteratura e la poesia, riesce a colpire e ad avvicinare i tempi, perché è possibile farsi un amante nel giro di mezza giornata.
Viene detto che poi ci debba essere necessariamente un incontro sul piano reale, invece questo è sconsigliabile perché, questo è importante nella riflessione che si fa sul bambino, nella relazione virtuale il corpo è un grande peso, un grande fardello, più si va avanti nella conoscenza e nell’apprendimento e nel fascino che dà questa maniera abnorme di relazionarsi perché è assoluta e totale, è assolutamente priva di ogni inibizione, di ogni censura su noi stessi, più si arriva all’essenza dell’altro e il corpo ha un peso perché noi ci siamo nel frattempo costruiti una nostra fattezza, che è quella che noi vogliamo e non quella che noi abbiamo, mai vorremmo arrivare a dimostrarci per quello che noi siamo.
Ora immaginate che tutto questo stia diventando un gioco anche un po’ pericoloso degli adulti:, è chiaro che i genitori dovrebbero dare degli strumenti di tutela ai propri figli, sarebbe altrimenti come uno strumento indiscriminato, incondizionato nelle mani dei minori che attraverso questa maniera stabiliscono nuove regole di relazione con i loro coetanei e non soltanto con loro, anche perché la limitazione anagrafica non ha assolutamente nessun senso in rete; incontravo ieri una mia collega e mi diceva che ha avuto la grande delusione di un appuntamento al buio con un maturo settantenne che le ha mandato foto e l’aveva veramente sedotta via rete, quando si sono incontrati si sono presi un caffè e si sono salutati.
Questo non pensate che appartenga a delle frange limitate, è una corsa comunissima a chi ci lavora ogni giorno, nelle redazioni dei giornali, tra il collega o la collega che si sa che ha la propria storia virtuale, macerato dal fatto di appalesare o no la sua vera realtà, ma intanto la storia cresce e soprattutto la generazione adulta si sta lentamente riappropriando di alcune modalità relazionali tipiche dell’infanzia, perché non si vuole mai crescere, non si vuole mai uscire, non ci si vuole mai staccare da un cordone ombelicale e si vive in un perenne sogno, in una perenne illusione che è tanto bella e tanto accogliente perché ce la siamo creata noi.
Quindi, è un’ulteriore conseguenza del fatto che questa generazione di adulti, sia notevolmente appiattita su un modello televisivo e dia così poca importanza al mondo reale, tanto da certificare la propria esistenza nel proprio passaggio televisivo. Perché è così importante oggi possedere le chiavi del potere televisivo? Perché si hanno le chiavi del paradiso non tanto per i tempi, per gli spazi e per la presenza equilibrata di quello o di quell’altro politico, ma, e non so se ne è consapevole chi su questo pensa e ragiona, si hanno veramente le chiavi dell’esistenza dell’umanità.
Oggi dire “ho la televisione in mano” significa fornire la potenzialità di un paradiso immaginario per un’infinità di persone. Io vivo in un quartiere romano molto vicino ai palazzi della RAI, dove il sabato e la domenica si fa il casting per i programmi soprattutto per i bambini e vedo questa sfilata di madri che vengono dalle province più remote d’Italia, con i loro piccoli per le mani: da qui al ’47-’48 di Bellissima non è passato assolutamente nessun tempo e c’è stata una sorta di immobilizzazione dell’immaginario. Le piccole illusioni di felicità, le smanie e le ansie, delle frustrazioni delle madri trovano oggi illusorio conforto anziché nel cinema, nel quotidiano televisivo. Ma la rete è un’altra cosa, e non voglio sembrare apocalittico, la rete non è solo un sistema di visione, non è l’evoluzione della televisione, non solo è un’altra televisione più personalizzata che consente l’interattività.
La rete è una formidabile modalità per relazionarsi attraverso parametri totalmente diversi, la classe adulta in parte conosce possibilità e chi la conosce non sempre poi sa gestirla; quello che occorre fare è dare gli strumenti non soltanto tecnologici per muoversi in questa realtà, sarebbe ben poco spiegare come si scarica un client per potersi collegare via rete se io non spiego e non faccio capire qual è l’immenso pericolo di rimanere affascinati da questo gioco e se può rimanervi affascinato un adulto, un bambino può rimanerne totalmente perso, perché l’adulto ha sempre il retroterra di un’esperienza precedente, che può ad un certo punto farlo nuovamente progredire verso delle relazioni naturali e normali, che abbiano attualizzazione sul piano concreto. Il bambino invece può rimanerne schiavo, come Alice nel paese delle meraviglie, perennemente schiavo della macchina delle meraviglie.
Quindi, concludendo, probabilmente bisognerebbe rendere più lieve possibile il dibattito su questi argomenti e scoprire, smascherare, in senso benevolo, e portare alla luce l’uso che sta facendo la gran parte dei genitori di questo mezzo. Se i genitori hanno un bisogno di fuga, hanno un bisogno di deriva, hanno un’insoddisfazione che viene colmata attraverso questi strumenti, è giusto che risolvano le loro ansie come meglio credano.
Esiste però una generazione che non è inquinata ancora dalla televisione, ma è segnata da una totale inesperienza a relazionarsi, ma pure da un’istintiva manualità nell’usare le nuove macchine di relazione, per cui molto più facilmente, molto più velocemente, potranno entrare nel paese delle meraviglie, ma ci dovrà essere accanto a loro qualcuno capace di far capire la differenza tra paese delle meraviglie e realtà. (Gianluca NICOLETTI, Direttore editoriale RAI-NET.)