Cosa fare

Il punto di un caregiver che piace a tutti pensare come “sfiga manager”

La Stampa, nel suo “Specchio” di domenica 7 luglio, ha dedicato un interessante approfondimento con una di articoli sulla figura del Caregiver. C’era anche un mio contributo, ho impiegato pochi minuti a scriverlo, tanto avevo tutto dentro da troppo tempo. Mi dicono “colleghi caregiver” , che ancora hanno la costanza di intrattenere rapporti istituzionali, che esiste un tavolo interministeriale aperto proprio per far chiacchierare tante parti, con interessi dei più vari e spesso in contrasto, sulla futura normativa per questa figura, realtà talmente evanescente alle nostre latitudini da non avere nemmeno un termine che la possa tradurre…

Comincino a inventarsi come definire quelli come me: Assistente familiare? Badante? O meglio di tutti proprio Sfiga manager? Non lo so, mi viene da ridere proprio perché piangersi addosso non serve e perché alla fine, se potessi vivere altri 80 anni in salute, nemmeno solleverei il problema, tanto essere “Sfiga manager” di mio figlio mi riempie felicemente la vita.

Scrivo questo ai tanti amici e colleghi che dopo avermi letto mi hanno scritto. Spero di non aver impietosito nessuno io così sto strabene, grazie comunque.



Ho capito da tempo, soprattutto a mie spese, quanto il caregiver familiare sia destinato alla solitudine. Si fa presto a dire che si tratta di una scelta, lo può essere si sicuro quando ci si trova di fronte a un’emergenza in famiglia, anche quando però si arriva alla consapevolezza di dedicare la propria vita a sostegno della fragilità di un congiunto, non si immagina ancora fino a che punto si arriverà nell’isolamento graduale e pneumatico da ogni ordine di relazione sociale. Il vuoto attorno al caregiver non si crea però perché il nostro prossimo è crudele e indifferente, siamo noi a tagliare legami, a sottrarci, a crearci attorno una cortina di sofferenza di cui non ci rendiamo neppure conto. È più facile che i colleghi, i parenti meno prossimi, gli amici, gli amori di ogni spessore e consistenza si tengano a distanza per pudore. Alla fine non sanno che dirci.

Noi ci convinciamo che le nostre rogne familiari non possano diventare un carico emotivo per chi non le condivida a sua volta. Tendiamo così a giustificare e ci lasciamo scivolare nel crogiolo della solitudine, come condizione tutto sommato meno faticosa. Smettiamo di cercare ritagli di tempo per il nostro esclusivo diletto, la nostra missione quotidiana ci sfianca abbastanza per farci illudere di essere appagati.

 L’imbarazzo di vivere in un mondo a cui noi caregiver familiari apparteniamo sempre meno rende sicuramente difficile chiederci. “Ci vediamo? Facciamo qualcosa insieme? Che fai per il fine settimana? Per le vacanze di Natale, per l’estate? È chiaro che ogni nostra risposta è condizionata dalle esigenze della persona che abbiamo in carico. Per quanto sia possibile organizzarci per provare a vivere come il resto del mondo libero, chiunque condivida i nostri brandelli di tempo futile non può fare a mano di leggere, in ogni nostro banale atteggiamento, la morsa inesorabile del senso di colpa verso chi ci aspetta, proprio perché lo sentiamo solo noi che abbiamo interrotto l’interminabile suo accudimento.

Ammetto di provare fastidio a usare la parola che ci designa. Caregiver vuol dire nulla. Nemmeno un termine che lo traduca nella nostra lingua. Una volta mi accapigliai con un collega che ci definì “badanti”, noi non badiamo persone come nostra professione, vorremmo poter impegnarci in tutto quello che meglio sappiamo fare, quello per cui abbiamo studiato, abbiamo investito tempo ed energie. A un certo punto della nostra vita però è diventato preminente occuparci di un’appendice staccata, fatta della nostra stessa carne e indissolubilmente legata a ogni nostra funzione vitale.

Noi curiamo, nutriamo, intratteniamo, assistiamo una periferica esterna del nostro apparato organico. Soffre quella soffriamo noi, ci acquietiamo quando ne avvertiamo la serenità, non riusciamo a immaginare di potergli sopravvivere se è un genitore, un fratello, un compagno di vita. Siamo terrorizzati al pensiero che debba sopravviverci se è un figlio.

Ho visto crescere una ragazza mia vicina di casa con la madre sempre a braccetto, è diventata una donna matura e sempre la vedevo con la mamma a braccetto. Le passeggiate quotidiane dopo il lavoro, i fine settimana sempre con la madre, le vacanze assieme, ogni uscita sempre loro due. Le amiche comuni la commiseravano. Loro avevano liberi amori, viaggi ovunque, serate divertenti. Una montagna di tempo per pensare a sé stesse, così non la capivano. “Perché non la mette da qualche parte? Perché non pensa alla sua vita?” Poi a furia di sentirsi rispondere “Stasera non posso devo stare con la mamma”. Hanno smesso di invitarla e sono entrate nella modalità liberatoria del compatimento.

Poi la madre è morta quando lei aveva più di 50 anni. L’ha assistita sempre e solo lei nella fase terminale. Si è portata a casa l’urna delle ceneri. Sono passati ancora anni, ancora la incontro e mi racconta quanto le manchi la madre.

Si dirà: “Ci racconti una situazione patologica! Una dipendenza affettiva.”  Ecco tutti bravi a ritagliare giudizi, è facile vivere da fuori un legame che il tempo rende sempre più indissolubile. Il caregiver non inizia a dedicarsi all’essere che accudisce per un’esplosione di amore che lo irradia di virtù eroiche. Il caregiver non è un santo, assomiglia più a un drogato.

 Inizia di solito per senso di dovere, la sua connessione si rafforza nel tempo. Alla fine non può più uscire, si sente investito del ruolo di garante dell’incolumità del suo sorvegliato speciale, non si accorge però come questi sia diventato il suo carceriere. Così si restiamo soli con un compagno di cella che è anche il nostro secondino.

Ora insorgeranno i portatori delle insegne fulgide della pietà umana, del gesto catartico di sublime altruismo.

 Il caregiver familiare, per quello che ho conosciuto in vite altrui e nella mia, entra in uno stato di diffusa rassegnazione che non esista per lui una scelta alternativa, perde ogni fiducia in possibili interventi istituzionali a suo supporto. Il caregiver si costruisce così un luogo dell’esistere occupato solo da due persone, un mondo che sguscerà sempre più distante da chi debba occuparsi solo di sé stesso.

(LA STAMPA 7 luglio 2024)

Gianluca Nicoletti

Giornalista, scrittore e voce della radio nazionale italiana. E' presidente della "Fondazione Cervelli Ribelll" attraverso cui realizza progetti legati alla neuro divergenza. E' padre di Tommy, giovane artista autistico su cui ha scritto 3 libri e realizzato due film.

Lascia un commento

Pulsante per tornare all'inizio