Autistici in cerca di diagnosi
Gabriella La Rovere inizia qui a collaborare a “per noi autistici”. Ha studiato per essere un medico e si laurea in Medicina e Chirurgia presso l’Università “G. D’Annunzio” di Chieti. Si è specializzata in Medicina Estetica presso la Fondazione Fatebenefratelli di Roma con votazione 70/70, perché così pensava di poter essere utile alla figlia Benedetta che è dei nostri da quando è nata con sclerosi tuberosa. Benedetta ora è una percussionista di grande talento. In questo periodo Gabriella sta diffondendo cultura sull’autismo in tournée per l’ Italia con la sua pièce teatrale “Storia di un’attinia e di un paguro bernardo” tratto dal libro autobiografico “L’ orologio di benedetta”.
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Una delle frasi che da un po’ di tempo capita di sentire dalla bocca di insegnanti di scuola primaria è: Non c’è ancora una diagnosi precisa sul bambino. Pare però che si tratti di disturbi dello spettro autistico. Mai come in questo periodo è importante una sorta di analisi del testo dal quale emerge chiara, illuminante una sola parola: diagnosi. E da qui ha inizio il calvario di quel bambino e dei suoi genitori che si troveranno catapultati in una giostra senza freni perché non passerà giorno che non verranno chiamati a riprendere quel bambino così particolare che disturba, non parla se non per lanciare urla dalle modulazioni che rasentano gli ultrasuoni.
La parola diagnosi è passata da essere di unica pertinenza medica, avvalorata da sei anni di studio più la specializzazione, a diventare l’ago della bilancia per un insegnante, perché da quel momento in poi il bambino non verrà più considerato tale, ma una malattia con le gambe e qualsiasi suo atteggiamento sarà bollato come frutto del disturbo. Lo sviluppo del bambino è lo stesso al di là della malattia di fondo e questa è una verità assoluta che viene costantemente disattesa. Le modalità di sviluppo possono essere più lente per la malattia ma non sono diverse perché il bambino affetto da autismo è un bambino, non un uccellino o un’altra cosa.
Se invece di guardare alla diagnosi si osservasse il bambino, si riuscirebbe a costruire su di lui, a partire dalla prima elementare, un progetto tendente a favorire la comunicazione e la conoscenza. L’osservazione è importante perché trovandoci di fronte ad un sistema comunicativo non condivisibile, ci consente di apprezzare segni che sono il suo particolare modo di esprimersi. L’affermazione non è così strana perché ognuno di noi applica, coscientemente o meno, la meta comunicazione. Se parlassimo unicamente senza usare il linguaggio del corpo, la modulazione della voce e la gestualità, non saremo in grado di comunicare in maniera efficace. Ma con la diagnosi tutto va a rotoli e le insegnanti si rimpallano quel bambino così che il percorso educativo diventa inefficace, oltre che inutile.
L’attività educativa è importante, basilare, utile più di qualsiasi medicina e il primo passo è stabilire una comunicazione condivisibile, l’esperanto che salva il bambino da una condizione assurda e inspiegabile. In questa analisi non voglio risparmiare neanche i medici a partire dalla frase disturbi dello spettro autistico che dice niente e tutto e che inserisce il quadro clinico in un calderone che va da zero ad infinito, gettando nel panico chi poi si troverà a educare quel bambino. La parola spettro, inserita con grazia nella frase, attiva inconsciamente un senso di angoscia che avrà la sua consacrazione tutte le volte che il bambino comunicherà a suo modo (bada bene, non disturberà)
Cosa dire poi dei tanti test di valutazione? Ore e ore passate a cavillare l’entità del problema riferita alla malattia di base, alle funzioni corporee, all’ambiente, ai buchi dell’ozono e forse anche alle piogge acide. Tutta la persona ridotta a un numero, quello stesso che i tanti professori, luminari di questa o quella branca della medicina, dicevano ai loro specializzandi di non dire mai perché il paziente è un uomo e non un numero a capo del letto.