Cosa fare

Anche nella scuola perfetta non è previsto che l' autistico sia felice da autistico

Pensavamo che vivere dall’altra parte della luna fosse solo una passeggiata? Questo sfogo agrodolce di Marina Viola ci rassicura sul fatto che dover gestire un figlio autistico è un affare spinoso a qualunque latitudine. E’ praticamente la cronaca di un GLH nella scuola modello per autistici che frequenta il nostro Luca. Ci si incontra una volta al mese, si entra con il pass, sono tutti sorridenti. L’ insegnante, che nella nostra realtà ibrido/inclusiva potremmo chiamare il coordinatore dei sostegni,  è bello come il sole… Eppure la madre intuisce che alla fine ogni mondo, persino il più felice, è l’ antitesi della felicità del suo autistico in dotazione.


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La settimana scorsa sono andata al Luca Day, che è un incontro mensile con gli insegnanti di Luca e le terapiste che vengono a casa. Si parla dei programmi su cui sta lavorando, e del progresso fatto nell’ultimo mese. Si cerca di stabilire se qualcosa deve essere modificato, aggiornato, o addirittura tolto dalla lunga lista degli obbiettivi stabiliti all’inizio di ogni anno scolastico.

Sono arrivata, come sempre, con un certo ritardo e con un po’ di fiatone. La segretaria alla reception mi ha salutata con un sorriso, mi ha stampato il pass, e mi ha aperto la porta. Mi sono seduta su una delle sedie blu all’entrata proprio mentre un gruppo di studenti passava con i bidoni del riciclo: li stavano portando al centro di riciclaggio a qualche miglio dalla scuola, dove alcuni di loro (Luca compreso) lavorano una volta alla settimana. Poi, bello come il Sole, è arrivato Noah, il coordinatore della classe di Luca. Il suo compito è quello di supervisionare Adam, che da quest’anno è il nuovo insegnante di Luca. Andiamo nella solita stanzetta, con un tavolo rotondo e cinque sedie, delle bottigliette d’acqua e una decina di penne.

Adam arriva quasi subito seguito da Ariel, l’assitente che di mattina si occupa di Luca in classe e il pomeriggio viene a lavorare con lui a casa. L’ultima è Rachel, incinta di otto mesi, con un bellissimo caschetto di capelli rossi, ricci. Davanti a noi la lista dei programmi su cui sta lavorando Luca. Alcuni si concludono con la parola progress, altri no.

Cominciamo.

Mi raccontano di come Luca sia più bravo a tollerare il rasoio elettrico, di cui ha sempre avuto molta paura; di come abbia imparato ad andare al supermercato e comprare i biscotti che gli piacciono di più, andare alla cassa, tirar fuori dalla tasca il portafogli e darlo alla terapista per aiutarlo a pagare. Mi raccontano che gli stanno insegnando a timbrare il cartellino come se andasse al lavoro, che adesso ha imparato a pulire due tapis roulant in dieci minuti con la spugnetta, e anche la sua scrivania. Che una volta la settimana va a mettere a posto i carrelli della spesa. Ha fatto molti progressi anche dal punto di vista “sociale” non accarezza più tanto spesso i capelli delle sue insegnanti, e anche se vuole sempre andare a trovare il suo amico (unico suo amico al mondo) Sean che è nell’altra classe, sta imparando a non andare più da lui, e che deve socializzare con i suoi nuovi compagni.

Mi sale un’ansia indescrivibile, ma per il momento non dico nulla. Sembrano contenti dei progressi e di come Luca risponda ai comandi proprio come vogliono loro. Lo stanno piegando come un pezzo di metallo, con tutto il fuoco rovente che hanno a loro disposizione.

Poi la domanda mi esce dalla bocca prima ancora di pensarci: “Ma Luca si diverte?” Si guardano tutti, senza sapere come rispondere. “Intendo, lui capisce l’importanza del timbrare il cartellino? Capisce perché sono due anni che gli state insegnando a pulire i tapi roulant? E perché se ha un amico non può stare con lui?” Mi accorgo che ad ogni domanda mi sale la rabbia ancestrale di chi non è capito, di chi farebbe tutte altre cose ma ha le mani legate dietro alla schiena, di chi è in trappola, in un certo senso.

“Beh, no, non si diverte molto, ma sai nella vita non ci si può mica sempre divertire…”. Risposta sacrosanta, ma mi viene il dubbio che Luca abbia un jolly in tasca, la carta di Monopoli per uscire di prigione. A lui non è richiesto di essere competitivo nel lavoro. A lui non è neanche richiesto di lavorare; non ha nessun obiettivo che vorrebbe raggiungere in quel mondo lì. E allora perché dobbiamo, anche a lui, insegnare che il lavoro nobilita l’uomo? Perché non gli insegniamo a seguire quello che gli piace davvero fare, onorare le sue (pochissime) passioni, fare in modo che possa fare le sue fotografie, i suoi video tutti uguali? Mi chiedo anche quanti ragazzi di diciannove anni amerebbero passare la giornata a pulire tapis roulant e portare fuori la spazzatura, o mettere a postio i carrelli della spesa. Perché lui sì?

Cerco di nascondere la mia rabbia, dettata da questo istinto che abbiamo tutti di adeguarci a un mondo che non permette una deviazione di diversità, dell’incapacità che abbiamo tutti di accettare che non tutti i pezzi di puzzle devono sempre e comunque combaciare.

Nella stanzetta regna un silenzio imbarazzato. Faccio una battuta per cercare di sdrammatizzare, ma dopo poco esco, avvilita. Vinta, ancora una volta. Non vedo l’ora che Luca venga a casa per dargli il suo iPad e fargli fare quello che vuole, nudo, sotto le coperte.

 MARINA VIOLA


MARINA VIOLA

Leggi Pensieri e Parole, il mio blog:
http://pensierieparola.blogspot.com
Marina Viola porta il quaranta di scarpe. Vive a Boston e ci fa il diario di quella che pensiamo essere l’ altra parte della luna. Che significa per noi autistici vivere negli Stati Uniti? Potete farle anche domande….

Le precedenti corrispondenze di Marina Viola da Boston

  • Questa è la sua storia: dal 1991, da quando cioé ha deciso di vivere con il suo fidanzato Dan. La loro prima casa era nel New Jersey, dove ha preso una minilaurea in grafica pubblicitaria. Ha tre figli: Luca, che ha quasi diciannove anni, ha una forma abbastanza drammatica di autismo e una forma strana di sindrome di Down; Sofia, che ha sedici anni ed è più bella di Liz Taylor, è un genio del computer e prende sempre cinque meno meno in matematica; Emma, che di anni ne ha solo otto, ma che riempie un silos con la sua personalità. Marina Viola odia le uova perché puzzano, ma per un maron glacé venderebbe senza alcun senso di colpa tutti e tre i figli. Ha una laurea in Sociologia presso Brooklyn College, l’università statale della città di New York. Da qualche anno tiene unblog in cui le piace raccontare alcuni momenti della sua vita. Ha scritto settimanalmente sul sito della Smemoranda (smemoranda.it) dell’America vista però in modo sarcastico e ironico.

A giugno del 2013 è uscito il suo primo libro, “Mio Padre è stato anche Beppe Viola”, edito da Feltrinelli. Nel suo secondo, “Storia del Mio Bambino Perfetto” (Rizzoli, 2014) racconta di Luca e dell’autismo.

Redazione

La redazione di "Per Noi Autistici" è costituita da contributori volontari che a vario titolo hanno competenza e personale esperienza delle tematiche che qui desiderano approfondire.

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