Ecco come ci si “azzuffa” per il “buon sostegno”, a vita o a tempo. Per gli autistici e non solo
Per le famiglie è un’esigenza non più rinviabile, ma per tanti docenti è l’ennesimo attacco alla categoria, nonché una minaccia al futuro professionale di chi si dedica agli studenti disabili, autistici compresi. Il sostegno va riformato, perché attualmente non funziona: lo dicono tutti, lo ha ribadito Faraone venerdì. Ma il percorso per raggiungere l’obiettivo “buon sostegno” dentro la “buona scuola” non è lineare, non è univoco e desta perplessità e malumori.
Vediamo come di dividono le varie “tifoserie”
Da una parte, c’è chi crede che il sostegno debba essere un mestiere, una scelta, una vocazione: e che, di conseguenza, una formazione quanto più specialistica non può fare che bene, mentre la confusione di ruoli e funzioni tra docenti curriculari e di sostegno non giova affatto a chi avrebbe bisogno di punti di riferimenti certi e affidabili. Autistici per primi, quindi. Da questa parte, quindi, ci sono buona parte delle famiglie: sapere che l’insegnante di sostegno del proprio figlio ha scelto quel lavoro, ha studiato e ancora studia per farlo al meglio, non spera di sbarazzarsene al più presto per “salire in cattedra” è certamente incoraggiante per chi lascia ogni giorno il proprio figlio a scuola con una buona dose di ansia e sgomento.
La proposta di riforma firmata Fish
Dietro questa idea c’è la Fish, che rafforza questo principio della “formazione” con quello, più pragmatico, della “separazione delle carriere”. Se sei insegnante di sstegno lo resti, insomm: non opensare che domani vai insegnare storia, geografia o aritmetica. Tanto vale, quindi, investire in formazione, diventare sempre più bravo e sempre più capace, perché questo è il tuo lavoro e quel ragazzo, come tanti come lui, sono la tua “materia”. E’ questa proposta di riforma della Fish che, a quanto si dice, il governo sta tenendo presente nell’esercitare quella delega che La buona scuola prevede, sotto forma di decreti attuativi, per mettere in pratica i principi teorici della legge.
Dall’altra parte ci sono i critici
Insegnanti ma non solo, esprimono il proprio secco “no”a quello che chiamano un ruolo “blindato” dell’insegnante di sostegno, come pure a una condanna “a vita” in base a cui il passaggio dal sostegno al posto comune non dovrebbe più essere possibile. Primo, perché – specie se sono insegnanti – non ci stanno a sentirsi dire che il sostegno serve solo come “trampolino” verso la cattedra: tanti di loro infatti rivendicano – e giustamente – la propria vocazione e motivazione, ma non per questo sono disposti a giurare eterna fedeltà al compito – grato o ingrato che sia – del sostegno. Secondo, perché in un certo senso – dice qualcuno – la scuola di tutti perderebbe preziose risorse, se riservasse a pochi quegli insegnanti specializzati in “integrazione”. E’ il commento, per esempio, di Evelina Chiocca, insegnante di sostegno, che replicando a Faraone scrive: “Come docente specializzata per il sostegno mi sto sempre più convincendo che, per promuovere e favorire l’integrazione scolastica, sia indispensabile passare su posto comune – riferisce – Per esperienza diretta e per testimonianze raccolte negli anni, mi rendo conto che un docente specializzato per il sostegno e incaricato su posto comune (o disciplinare) offre maggiori opportunità e competenze alla classe e che, di fatto, contribuisce meglio a promuovere l’integrazione scolastica. Moltissimi colleghi specializzati per il sostegno trasferitisi su posto comune, oppure assunti direttamente su posto comune, offrono alla scuola italiana un validissimo apporto all’integrazione, sicuramente con una marcia in più rispetto ad altri docenti”.
E dalla sua parte ci sono studiosi del calibro di Dario Ianes, responsabile delle edizioni Erikson, che tempo fa a Redattore sociale aveva espresso un secco “no al ruolo blindato dell’insegnante di sostegno”, ribadendo quello che ritiene un “principio fondamentale: prima si diventa insegnanti e poi ci si specializza. Diversamente, c’è il fortissimo rischio che meccanismi di delega del tipo ‘pensaci tu che sei specializzato’ saranno ancora più probabili”. Una posizione, questa, vicina a quella espressa, solo pochi giorni prima, da Adriano Sofri su Repubblica, il quale paventava il rischio che gli insegnanti di sostegno fossero “condannati” a restar tali “a vita”, anche in caso di “ripensamento”. E ad essere per sempre “insegnanti di serie B”. E attirava a sé, così, le dure critiche di Gianluca Nicoeltti: “Occuparsi di un ragazzo come il mio non è una simpatica esperienza da provare per sentirsi migliori, non è come un corso di Tai Chi o qualche giorno di volontariato in periferia – aveva ribattuto – Soprattutto non deve occupare un insegnante a patto che riesca a suscitare idee e stimoli, salvo poi mollare tutto quando si accorge di non essere adatto a quel lavoro”.
La questione, insomma. è tutt’altro che semplice: ragioni e torti, probabilmente, sono come sempre un po’ dell’uno, un po’ dell’altro. Ora, toccherà al governo, in ultima battuta, stabilire quale sia la strada migliore e definire, una volta per tutte, i vari passaggi per la nascita di quel “buon sostegno”, in assenza del quale – su questo tutti sono d’accordo – una “buona scuola” non può esistere.
Messo fuori dalla scuola (incapace a trattarlo) il “feroce” autistico che morde