Diego racconta Edo, fratello teppautistico. In un libro
Cosa vuol dire avere un fratello #teppautistico? Vuol dire solitudine, a volte. Vuol dire sentirsi inosservati. Vuol dire senso di colpa per la sfortunata sorte che è toccata all’altro. Tutto questo, che la maggior parte di noi può solamente immaginare, lo racconta uno che invece lo sa bene, perché questa condizione la vive ogni giorno. Dal giorno in cui è nato, 4 anni dopo di lui, quel complicato fratello. Diego Pelizza ha 21 anni, suo fratello Edoardo ne ha 17. Diego studia a Padova e ha scritto un libro, che ci tiene a far conoscere. Per questo ci scrive, perché quello che si è deciso finalmente a raccontare possa ora avere diffusione e raggiungere chi, forse, vive una situazione simile alla sua, ma non è ancora uscito allo scoperto: non ha ancora trovato le parole per spiegare l’affeto complicato e fraterno di un “siblings”:
“Sono Diego Pelizza, uno studente di 21 anni di Padova con un fratello autistico di 17 anni. Vi scrivo perché di recente ho pubblicato con la casa editrice Cleup di Padova un romanzo dal titolo ‘Vola più in alto‘, con cui ho cercato di raccontare l’autismo dal punto di vista dei fratelli. Di solito l’attenzione si concentra sulla prospettiva dei genitori o sui disabili stessi, mentre il vissuto dei fratelli è molto spesso trascurato: spero quindi con questo libro di poter dare voce a questa categoria di persone. Ho già presentato il libro alla libreria Feltrinelli di Padova e in alcune biblioteche e centri civici locali. Mi sto inoltre impegnando a presentarlo in diverse scuole superiori, per sensibilizzare i ragazzi sul problema dell’autismo (sono stato in una scuola di Bologna e in alcuni licei di Padova). Purtroppo al momento la distribuzione è perlopiù locale, con un numero limitato di copie stampate. Considerata la sensibilità con cui trattate questi temi, mi chiedevo se fosse possibile avere il Vostro appoggio nella diffusione del libro”.
Ovviamente sì, rispondiamo noi. E gli diamo, qui di seguito, tutto lo spazio che serve a farci assaggiare il sapore e il senso del suo libro. Che crediamo sia già un libro importante. Ecco le prime righe.
Nel filmato ci sono mio fratello, i miei genitori e le mie zie, e sembriamo una famiglia felice. Edo ha otto mesi: è seduto per terra, sopra un tappeto, e gioca con degli animaletti di plastica. Ogni tanto guarda la telecamera e sbatte le palpebre, la bocca semi-aperta in un’espressione meravigliata. Poi si mette a gattoni, fruga nella cesta degli animali e ricomincia a giocare. Mia madre ha un aspetto giovanile, i capelli più corti e una voce che stento a riconoscere. Nonostante cerchi di mantenere un tono serio, mentre parla alla giornalista della sua esperienza rivolge a Edo delle occhiate traboccanti di affetto.
Quando la telecamera le regala un primo piano, il suo sguardo è ammantato da una luce radiosa, che trasmette fiducia, speranza e, soprattutto, gratitudine; gratitudine verso un mondo che prima è stato sul punto di sottrarle un figlio, ma poi glielo ha restituito. Mio padre ha i capelli neri, senza un filo di grigio, il volto sbarbato e un’espressione serena che credo di non avergli mai visto. È seduto sul divano con le braccia conserte e ascolta in silenzio le parole di mia madre e della giornalista, limitandosi a seguire la conversazione con qualche leggero cenno del capo. Dietro il divano, una fila di sedie su cui sono sedute le mie tre zie. Tutte sorelle di mia madre, tutte vestite con i loro abiti migliori. Hanno occhi solo per Edo, quel bambino adorabile che gioca con gli animaletti sul tappeto, ignaro di tutto.
E poi ci sono io. Ho quattro anni, i capelli biondicci pettinati di lato, le guance paffute. Me ne sto seduto in un angolo del divano e mio padre mi cinge le spalle. Cambio posizione di continuo, tirando su i piedi, appoggiandomi al fianco di papà, ruotando la testa da tutte le parti per osservare quel che sta accadendo, senza capirci granché. Mio padre ogni tanto mi dà qualche colpetto sul braccio e mi sussurra qualcosa all’orecchio, forse per spiegarmi la situazione, forse per calmarmi. Quando mia madre termina il suo racconto, è visibilmente commossa e si asciuga gli occhi lucidi con la manica della camicia. La telecamera non si lascia sfuggire questo particolare e il pubblico, nello studio televisivo in collegamento con la nostra casa, scoppia in un applauso.
Segue un lungo primo piano di Edo, che si succhia il pollice, sbatte le palpebre e poi comincia a ridere per un motivo che solo lui conosce. Le zie lo ammirano con occhi adoranti e si guardano l’un l’altra per condividere quell’emozione. Il presentatore, dallo studio, si congratula con i miei genitori per la bellezza di Edo e il pubblico applaude di nuovo. Hanno ragione. Edo è davvero un bambino bellissimo, con quei capelli chiari, quegli occhioni innocenti, quel sorriso spontaneo e irresistibile. Un bambino meraviglioso. La giornalista fa una domanda a mio padre e gli allunga il microfono. Lui si schiarisce la voce, accavalla le gambe e risponde con una certa lentezza, scegliendo le parole con cura. In apparenza sembra un uomo pacato e disinvolto, e lo è davvero, ma conoscendolo scorgo anche, nelle pause tra una frase e l’altra, nei sorrisi tirati che rivolge alla telecamera, la riluttanza e l’imbarazzo di chi non è abituato a stare al centro dell’attenzione. Mio padre conclude il suo intervento, torna ad appoggiarsi allo schienale del divano e incrocia le braccia sul petto. La giornalista mi sorride, poi guarda la telecamera. «C’è qui anche Davide, il fratello di Edoardo.»
Il presentatore le chiede la mia età e lei risponde che ho quattro anni. «Quattro anni?» ripete il presentatore. «E puoi dirci come è stato il ritorno a casa del tuo fratellino dopo questi otto mesi di ospedale, Davide?» La giornalista mi chiede se ho capito la domanda e allunga il microfono verso di me. Io guardo mio padre, poi sposto gli occhi sulla giornalista e annuisco piano, ma resto in silenzio. «Sei contento che il tuo fratellino sia tornato?» Annuisco ancora. Apro la bocca per parlare, ma dalla gola non esce alcun suono. Sbatto le palpebre con aria smarrita, pronuncio qualcosa di incomprensibile con un filo di voce, poi mi rifugio dietro la spalla di mio padre, come se volessi nascondermi alla telecamera o al mondo intero. Nello studio televisivo, il pubblico applaude.