Il lavoro nobilita il teppautistico?
Per il primo maggio, giornata dedicata ai lavoratori, mi è venuto in mente il video postato su Facebook dalla scuola di mio figlio. Mostra alcuni suoi compagni di scuola, impeganti a imparare non soltanto a lavorare, ma anche a comportarsi in maniera adeguata una volta assunti da qualche parte. Crossroads, la scuola che frequenta Luca, è una delle pochissime ad avere acquistato un programma didattico per persone autistiche che offre un’ottantina di tipi di lavori che vengono proposti ai ragazzi, per poter selezionare il più consono alle capacità e ai gusti individuali di ogni studente. Sono lavori in diversi campi: meccanica, ristorazione, lavori di ufficio, lavori di pulizia, come ad esempio pulire i pavimenti o suddividere carta, plastica e vetro per il riciclaggio dei rifiuti.
Il programma insegna, oltre ai diversi tipi di lavori, anche a vestirsi e pettinarsi in modo adeguato prima di presentarsi a lavorare, a timbrare il cartellino, a salutare i colleghi, a essere più indipendenti possibile, e a fare il proprio dovere in modo veloce ed efficiente. Ogni sei settimane a ogni studente viene assegnato un tipo di lavoro diverso, fino a quando non si trova quello giusto. Alcuni studenti, a turno, lavorano negli uffici o nel negozio della scuola. È senza dubbio un ottimo programma, pensato in maniera originale e sistematica per insegnare ai nostri ragazzi a essere anche loro produttivi e ad avere qualcosa da fare una volta raggiunta l’età adulta. Io, però, continuo ad avere i miei forti dubbi sull’idea di incanalare a tutti i costi persone come mio figlio Luca, profondamente autistico, in un settore lavorativo.
L’idea che il lavoro nobiliti l’uomo e che si possano raggiungere indipendenza e soddisfazioni lavorando fa parte del nostro mondo, dei nostri principi. Per ‘nostro’ intendo di chi, neurotipico o meno, ha almeno il concetto di denaro, o il desiderio di indipendenza, o se non altro chiaro l’obbiettivo di cosa vuol dire risparmiare dei soldi per potersi comprare una casa, una macchina, avere famiglia, andare in vacanza. Per Luca e per molti dei suoi compagni, invece, nulla di tutto questo ha senso: non sanno distinguere una banconota da un dollaro da una da cento, non saranno mai indipendenti, e non avranno mai una casa loro, una macchina e men che meno una famiglia loro. Andranno, se saranno fortunati, in vancanza in pulman, con altre persone come loro, accompagnati da un’équipe di terapisti specializzati.
Cosa serve, in questa loro inesorabile e invidiabile condizione di bambini, imparare a timbrare il cartellino, a usare la macchina tritadocumenti o a mettere la carta con la carta e il vetro con il vetro? Perché invece di insegnar loro a fare meccanicamente qualcosa di cui non capiscono l’importanza, non si prova a cercare qualcosa che piaccia davvero fare, un hobby o uno sport, o qualcosa non necessariamente legato all’idea di lavoro, produzione, guadagno, sacrificio?
A volte penso che Luca sia privilegiato anche in questo, confronto a noi che ci sentiamo di essere ‘arrivati’ quando riusciamo finalmente a fare un lavoro, che ci piaccia o no, ma che ci garantisca una dignità economica all’altezza delle nostre potenzialità. Luca non ha nessuna ambizione lavorativa: fa quello che gli dicono di fare con noia e malvolentieri. La sua passione sono la musica, che ascolta incessantemente sul suo iPad, le fotografie, i video che fa del suo giochino che schiacci il tasto e fa la musichina. Gli piace anche fare esercizio fisico, come andare sul tapis roulant a scuola o fare delle passegiate, a patto che siano corte. La sua giornata ideale sarebbe organizzata così: svegliarsi verso le nove emmezza, fare colazione, ascoltare un po’ di musica, fare una passeggiata, pranzare, fotografare il suo gioco preferito, guardare le sue foto, ascoltare un altro po’ di musica, andare un’oretta in palestra, farsi una doccia calda e lunga, cenare, e giocare con iPad a letto fino a quando gli viene sonno. Il tutto condito con un’assoluta assenza di sensi di colpa, e senza la benché minima idea di star sprecando del tempo a far ‘niente’ invece che lavorare. Ditemi voi: cosa c’è di male a fare una vita così?
Io, personalmente, lo invidio moltissimo.
MARINA VIOLA
http://pensierieparola.blogspo
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- Questa è la sua storia: dal 1991, da quando cioé ha deciso di vivere con il suo fidanzato Dan. La loro prima casa era nel New Jersey, dove ha preso una minilaurea in grafica pubblicitaria. Ha tre figli: Luca, che ha quasi diciannove anni, ha una forma abbastanza drammatica di autismo e una forma strana di sindrome di Down; Sofia, che ha sedici anni ed è più bella di Liz Taylor, è un genio del computer e prende sempre cinque meno meno in matematica; Emma, che di anni ne ha solo otto, ma che riempie un silos con la sua personalità. Marina Viola odia le uova perché puzzano, ma per un maron glacé venderebbe senza alcun senso di colpa tutti e tre i figli. Ha una laurea in Sociologia presso Brooklyn College, l’università statale della città di New York. Da qualche anno tiene unblog in cui le piace raccontare alcuni momenti della sua vita. Ha scritto settimanalmente sul sito della Smemoranda (smemoranda.it) dell’America vista però in modo sarcastico e ironico.
A giugno del 2013 è uscito il suo primo libro, “Mio Padre è stato anche Beppe Viola”, edito da Feltrinelli. Nel suo secondo, “Storia del Mio Bambino Perfetto” (Rizzoli, 2014) racconta di Luca e dell’autismo.