Quelle guerre al ristorante con i figli autistici
La notizia arrivata dagli USA di un kit di supporto comunicativo e ludico per persone autistiche presente in alcuni ristoranti mi ha riportato indietro nel tempo.
Avere un figlio autistico significa rivoluzionare totalmente le proprie abitudini di vita e molte delle cose che eri solito fare prima dello tsunami diventano ricordi sbiaditi nel tempo. Andare al ristorante è uno di questi. L’insofferenza verso la confusione, le fissazioni alimentari, le attese, sono elementi più che sufficienti per decidere di rimanere a casa.
La condizione di segregato non è facile da accettare perché siamo pur sempre animali tendenti alla socializzazione, perciò ogni tot di anni decidi che è forse il momento per riprovarci, per andare al ristorante come tutti.
Memore delle sconfitte precedenti, pianifichi tutto nei minimi particolari, dalla scelta del ristorante, all’orario, al posto in cui sedersi, al cibo. Pur di uscire di casa e fare la vita come tutti, sei anche disposta a non mangiare, a scegliere il piatto freddo, così arriva velocemente. Per tua figlia sai già cosa è meglio: penne con burro e parmigiano. Semplice, elementare, rassicurante con tutto quel bianco.
Ti guardi attorno e ti senti felice, non importa che non è neanche mezzogiorno e non c’è nessuno nel locale. Al ristoratore hai detto sorridendo che eravate di passaggio e avevate un po’ di languore. Una bugia bianca. Ogni tanto ci vuole per non morire soli e disperati.
Hai già calcolato un buco di dieci minuti prima che arrivi la pasta e così cominci a raccontare a raffica tutte le volte che tuo padre ti portava al ristorante, la gioia di uscire di casa, i posti nuovi che avresti visto. Parli con il sorriso sulle labbra mentre tuo figlio comincia lentamente a guardarsi attorno e iniziare una stereotipia. È il segnale che l’attesa si sta trasformando in un mostro ma anche che la tua malcelata ansia sia stata recepita.
Cambi registro immediatamente. Il tuo tsunami ti ha reso una trasformista di eccezionale bravura e quindi intoni quella canzone, così particolare nel refrain, da averla cantata per un pomeriggio intero per il suo unico piacere. Tua figlia si rilassa e l’angoscia che ti attanagliava sembra scomparire. Tutto sommato, quella canzone non è poi così brutta. Canti e sorridi finché vedi arrivare il cameriere con i due piatti. Ti serve quelle quattro fettine tristi di prosciutto – per ornamento ci ha aggiunto del formaggio – e appoggia il piatto di pasta di fronte a te.
Ma sono fusilli!!! Con un balzo prendi il parmigiano e cerchi di coprire la pasta pregando Dio che tua figlia non se ne accorga, ma è una mera illusione. Non c’è modo di riparare al danno, non serve parlare, cantare, far vedere – mangiandoli – che sono i fusilli più buoni che tu abbia mai assaggiato.
Mentre ti crolla tutto il mondo addosso e ti dai l’ennesima colpa per non aver considerato tutte le variabili, pensi immediatamente a un piano B, qualcosa che non ti faccia andare via dal ristorante come le altre volte. Il miracolo si realizza mentre la disperazione ha già preso il sopravvento e le lacrime spingono per sgorgare come fiumi in piena. Tua figlia, dopo tic compulsivi e parole quasi urlate, allunga la mano e prende il tuo formaggio. Fai segno al cameriere di portare un altro piatto di soli formaggi mentre tu, sudata e sorridente, finisci i fusilli più buoni del mondo.
Gabriella La Rovere