Watoto wenye ulemavu. Dalla Tanzania la storia di una classe per ragazzi disabili
Una classe per ragazzi disabili in Tanzania, in swahili si direbbe “watoto wenye ulemavu”: l’hanno creata e la gestiscono due padri missionari dei Canossiani nella città di Mwanaza sul Lago Vittoria. Dove mancano completamente centri per la diagnosi e le terapie, rari i tentativi di integrazione, padre Stefano Vesentini ci racconta la storia di un tentativo che al momento sta provando a non lasciare soli 22 ragazzi e che si sta sviluppando, utilizzando materiali didattici italiani, come quelli della nostra Debora Coradazzi.
“Siamo un Istituto religioso, piccolo, i Canossiani. Contiamo 135 religiosi in tutto il mondo che provano a farsi prossimità con tutte le ricchezze e povertà del caso.” Comincia così il racconto di padre Stefano Vesentini, da 5 anni in missione in Tanzania, impegnato nella cura di chi ha bisogno, soprattutto di chi, in una realtà complessa e diversificata come l’Africa, ha una difficoltà in più perchè spesso non riconosciuta e priva di sostegni: i disabili.
“Abbiamo due attività, sostanzialmente, la parrocchia e una serie di realtà a favore dei più poveri. Io, Stefano, vivo qui e questa, ora, è la mia casa, da circa 5 anni. Qui in comunità con altri due confratelli mi occupo un po’ di tutte quelle iniziative avviate per accompagnare chi fatica ne fa ben più di noi, senza dubbio, ma anche più degli altri che vivono in parrocchia. Tra queste persone: ragazzi, bambini, anziani, famiglie. Da circa tre anni abbiamo provato a far nascere una realtà che accolga, per la scuola. Scuola come istruzione, ma anche e soprattutto come inclusione e prassi per l’autosufficienza: stiamo creando una classe per ragazzi portatori di handicap, in swahili (la lingua della Tanzania) si direbbe watoto wenye ulemavu. Dopo un inizio un po’ incerto ora la realtà conta circa 22 tra ragazzi e ragazze, la maggior parte tra gli 8 e i 12 anni. Tutti i giorni vengono e assieme ai loro insegnanti (quest’anno saranno 4) crescono, sia dal punto di vista cognitivo, sia dal punto di vista dell’autonomia e inclusione (per ognuno e’ redatto un PEI). “
Per portare avanti il suo progetto, i padri Canossiani hanno deciso di importare alcuni strumenti adeguati dall’Italia. “In questi tempi per programmare e accompagnare i ragazzi avevamo due strade. Locali, gli insegnanti che lavorano qui hanno avuto esperienza in altre scuole dello stesso tipo e “importati”: ho contatti con l’AIAS di Verona e dei miei amici, l’ultima volta che sono stato in Italia, mi avevano ben rifornito di strumenti, soprattutto cartacei (da poter infilare in valigia).” Poi un giorno, curiosando su Facebook, padre Stefano ha letto un articolo-testimonianza sulla impresa di una mamma speciale, Debora Coradazzi. “Parlava del figlio autistico (ho amici con ragazzini così), lo leggo con curiosità e ammirazione. Alla fine trovo il riferimento online per visitare il negozio di Debora. Subito penso alla possibilità di avere altri strumenti per migliorare la nostra classe, per far crescere meglio i nostri ragazzi. Così mi sono accordato per ricevere quanto e’ possibile spedire fin qui (il materiale è arrivato all’amica a Favignana che me lo spedirà un po’ alla volta con delle buste ordinarie).”
Una storia che fa riprendere il respiro tra tanta superficialità, compassione o peggio opportunismo, soprattutto perchè si svolge in un luogo dove per i disabili sembra esserci veramente poco. “La situazione del mondo della disabilità qui in Tanzania, non solo della realtà dell’autismo, è a due marce. Regole, leggi, associazioni ci sono, le associazioni sono anche attive e in rete. Diagnosi, centri specializzati e percorsi normali di inclusione, integrazione sono completamente assenti, almeno qui a Mwanza! Per fare un esempio ho chiesto aiuto ad una italiana che aveva vissuto qui per 2 anni scrivendo una tesi per la sua laurea di antropologia sulla condizione dei bambini disabili, per aiutare un ragazzino che abbiamo in casa famiglia che a mio parere soffre di dislessia, e mi diceva che non esisteva un centro per una diagnosi seria! Nell’ospedale più grande di Mwanza, non c’e’ un reparto di pediatria, tanto per capire la situazione. Perciò quanto stiamo facendo in rete dall’anno scorso con altre realtà che operano come noi, è senz’altro un lavoro che oltre a portare benessere ai nostri ragazzi, porta pensiero, cambiamento e crescita nelle persone. Ad iniziare dai genitori che non vedono più il loro ragazzo solo come un problema, ma anche piano piano ne scorgono gli aspetti di risorsa, passando agli insegnanti che scoprono che esiste un altro tipo di alunno (abbiamo nella missione una scuola elementare, dall’anno scorso alcuni nostri studenti entrano nella classe dei compagni “normodotati” per la lezione, due o tre volte alla settimana, loro per imparare la matematica o la geografia, gli studenti per imparare a vivere), alla gente comune che vede giocare, crescere, scambiarsi vita con i propri figli altri figli che forse nemmeno pensavano esistessero. E’ un impegno pieno di novità, ogni giorno ad avere occhi attenti, si apre una strada nuova e entusiasmante!”
Un percorso duro, silenzioso che ha cambiato la vita a 22 ragazzi.
“Quando abbiamo iniziato, abbiamo girato per Igoma con la bicicletta per trovare e vedere se c’erano ragazzi disabili: ne abbiamo trovati 5. Abbiamo iniziato la classe con un po’ di perlessità. Dopo una settimana erano già 12, alla fine del primo anno 15, l’anno scorso 22, e tutti della zona. Vanno e vengono ogni mattina, non sono ragazzi che partono da lontano. C’erano! Vivevano! Dove? Una volta non so. Adesso anche qui con noi nella classe dei “watoto wa kweli wa Magdalena wa Kanosa” (dei veri figli di S.Maddalena).”