progetto DAMA per un ospedale a misura anche di noi autistici
L’art. 25 della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità così recita: le persone con disabilità hanno diritto a godere del più alto standard conseguibile di salute, senza discriminazioni sulla base della disabilità. Gli Stati Parti devono prendere tutte le misure appropriate per assicurare alle persone con disabilità l’accesso ai servizi sanitari che tengano conto delle specifiche differenze di genere, inclusi i servizi di riabilitazione collegati alla sanità.
Già l’attuazione di questo enunciato, senza i successivi distinguo, sarebbe sufficiente a far sì che andare in ospedale non sia la peggiore esperienza della vita della persona con disabilità e del suo caregiver. Giusto in questi giorni su Facebook c’era la foto di un ragazzo in sedia a rotelle che ha dovuto superare le solite barriere architettoniche per poter accedere all’ospedale. Siamo alla fine del 2017 e ancora mancano i fondamentali, cioè la semplice rampa! E questo è solo l’inizio perché subito dopo si è impegnati in una fila interminabile al CUP, dove c’è lo sportello dedicato alle future mamme ma spesso manca quello per chi è affetto da disabilità mentale per il quale l’attesa è l’innesco di comportamenti aggressivi. Non puoi neanche contare sul buonsenso degli altri perché non c’è mai nessuno che cede il suo posto, sono tutti estremamente impegnati in attività di fondamentale importanza per il Paese.
Ma il calvario non è finito perché altrettanta attesa è presente per il prelievo di sangue e per tutte le altre attività ambulatoriali. Sì, perché in questo terzo millennio, con i traguardi della medicina, la migliore alimentazione e una buona qualità di vita, i nostri figli ci sopravvivono e l’ospedale non è più l’ultima tappa di un percorso ma una routine a frequenza annuale, se non mensile.
Quando arriva il tuo turno, preghi che dall’altra parte della porta ci sia un personale sanitario per il quale la parola empatia non rappresenti solo un vocabolo desueto. Avere fortuna in questo è paragonabile a un giro di roulette russa. Far visitare nostro figlio è la dodicesima fatica di Ercole e, se è in sedia a rotelle, la probabilità che l’ambulatorio manchi di sollevatore è pari al 100%.
Il passaggio dall’ospedale quale luogo di cura, nel senso più ampio possibile, ad azienda lo ha spersonalizzato e tutto si riduce in obiettivi, tipo minore numero di ricoveri, tempo di degenza breve, attività ambulatoriale a ritmo incalzante. Tutto deve risolversi nel giro di 10-15 minuti e poi si passa al successivo. Il caregiver non viene ascoltato e, come ultima ratio, si consiglia di soprassedere lasciando il paziente con disabilità mentale con lo stesso problema di partenza, attenuato dall’uso di farmaci sintomatici.
In tutto questo girone infernale si vedono in lontananza degli spiragli di luce, piccole oasi di paradiso. Si tratta del progetto DAMA (acronimo di Disabled Advanced Medical Assistance) che interessa solo 10 dei 1163 ospedali italiani e che è nato 17 anni fa dall’incontro tra Edoardo Cernuschi, fondatore e presidente di Ledha, e il dottor Angelo Mantovani, chirurgo dell’Ospedale San Paolo di Milano.
Il DAMA è pensato come servizio finalizzato alla presa in carico delle persone con grave disabilità intellettiva e neuromotoria. I punti che caratterizzano questo modello, replicabile in qualsiasi altro ospedale, sono:
- la presenza di un’equipe multidisciplinare formata da medici e paramedici presenti nell’organico dell’ospedale e che prende in carico il paziente con disabilità, progettando il percorso più idoneo senza inutili attese;
- la presenza di personale volontario selezionato e formato che accompagnano nei percorsi le famiglie fungendo da veri mediatori culturali;
- la presenza di un call center in grado di accogliere il problema riferito dal caregiver e decidere sul momento che percorso attivare;
- la creazione di un data base con i dati di tutti i pazienti. In questo modo l’operatore del call center può avere tutte le informazioni per dare la risposta più idonea in termini di tempestività e adeguatezza;
- la possibilità di gestire attività ambulatoriali e di day hospital in modo autonomo con locali adeguati;
- sale operatorie a disposizione in giorni e orari stabiliti.
Il progetto DAMA è il sogno di ogni genitore con figlio con disabilità, è la fine di una via Crucis dalle stazioni infinite. Come mai non è presente in tutto il territorio nazionale? Non comporta alcuna nuova assunzione, né locali ex novo, ma si usano le risorse già presenti. La sua semplicità di attuazione però si scontra con le scelte di programmazione dei responsabili. Anche quando un politico, sensibile e di buon cuore, si fa carico di portare queste istanze nelle sedi degli organi costituzionali, viene accontentato con un’audizione e con un “ci penseremo poi”, al quale fa seguito il nulla.
Gabriella La Rovere