La prova degli abbracci
La parola abbraccio è comparsa due volte, in maniera prepotente, nel giro di sole 24 ore. La prima in maniera inattesa e imprevedibile dal racconto dell’esperienza di un bambino di 12 anni con deficit dell’attenzione. Per la prima volta, dopo anni di richieste quasi provocatorie ai suoi compagni di classe di essere abbracciato, richieste che solitamente avevano come unica risposta la fuga, ha avuto il tanto agognato abbraccio, non senza esserne prima stupito e poi contento. Il suo racconto ha avuto un che di irreale, è stato timidamente sussurrato per paura che l’incantesimo di quell’attimo di benessere che portava nel cuore potesse scomparire.
La storia non è finita lì perché ha voluto sperimentare altro e allargare la relazione anche a un adulto, in questo caso io, ed è stato toccante seguire tutti i passi che lo hanno portato a stabilire una relazione e affermare il suo essere. Ha cominciato con il sapere il mio nome, che non ricordava perché poco comune oggigiorno, è passato poi ad una carezza sulla schiena, così come si sarebbe fatto con qualsiasi altro animale da compagnia, per arrivare dritto alla richiesta di un abbraccio.
L’esperienza così intensa mi ha riportato alla mente i primi anni di vita di Benedetta, quando era impossibile stabilire con lei una relazione fisica e come, con estrema pazienza, ho cercato di abituarla al contatto. L’educazione dei sensi, così tanto studiata dalla Montessori, trova il suo significato proprio nell’autismo dove è importante recuperare la loro funzione, non importa quanto tempo occorra perché è una cosa sempre possibile. Da pochi anni Benedetta è in grado di discriminare gli odori: dalla puzza ai profumi. La rivelazione è capitata un paio di anni fa quando, uscendo di casa, siamo state sopraffatte dall’odore delle porcilaie aperte. Quel “che puzza, mamma!” è stata una sorpresa inaspettata e da lì siamo passate ai profumi, al piacere di sentirli addosso arrivando anche ad un gusto personale. Ci sono voluti 25 anni!
L’altro incontro con la parola abbraccio è venuto leggendo un libro.
«La gente dice sempre cose tipo: “Tanti abbracci, un abbraccio, ti abbraccio”, ma poi nessuno si abbraccia mai per davvero (…) Io vorrei vivere abbracciato» Chi parla è Carlo, un uomo con la sindrome di Down, uno dei protagonisti del libro di Matteo Righetto “Dove porta la neve”.
L’abbraccio è un vero e proprio rito di unione, ha in sé una forte portata coercitiva perché va ad annullare uno spazio personale, diverso per ognuno, posto a protezione. Accettarlo, in un certo senso, significa legarsi, non essere più indifferente. E questo gesto, in una società che è diventata insensibile ai bisogni degli altri, può essere veramente rivoluzionario.
Nei primi anni di vita di Benedetta andava di moda l’holding con il quale implicitamente si dava credito alla teoria della mamma frigorifero. Venivano fatte delle vere e proprie sedute, spesso frustranti, dove la madre costringeva il proprio figlio ad una morsa affettiva che provocava, da un lato urla, divincolamenti, fuga e innesco di stereotipie rassicuranti, dall’altro altrettante urla, rabbia e pianti disperati.
Il tutto sotto gli occhi tranquilli del medico che si occupava di autismo, quelli spaventati del padre e quelli sornioni della suocera che aveva conferma di quel certo non so che sempre provato nei riguardi della nuora. A spiegazione di uno scenario che avrebbe fatto impallidire qualsiasi film del genere horror, si affermava che l’esperienza aveva liberato la madre dalle sue frustrazioni. Fortunatamente la ricerca scientifica ha dispiegato scenari diversi e l’abbraccio è rimasto uno degli innumerevoli modi per conoscersi.
Gabriella La Rovere