Giornalisti a scuola di regole per parlare e scrivere di Autismo e Sindrome di Down
Giornalisti a scuola di regole per parlare, scrivere, comunicare l’autismo e la sindrome di Down. E’ successo nel salone d’onore del Comune di Cuneo e al Circolo della Stampa di Torino il 27 e 28 febbraio scorsi in occasione del corso di formazione per giornalisti intitolato “Regole e deontologia nel parlare di sindrome di Down e autismo”. La cattiva informazione su argomenti che fino a poco tempo fa erano regalati nell’indistinto mondo della disabilità mentale non è malafede. Pressappochismo, ignoranza e non cultura non possono essere più ammessi, un professionista come lo è un giornalista ha il dovere d’informarsi ancor prima d’informare. Certe parole scritte o dette con superficialità non sono “peccati veniali” perché possono fare molto male come dei macigni lasciati cadere dall’alto. E’ pur vero che il lavoro del giornalista non è mai semplice e quando ci si trova ad affrontare tematiche delicate come il mondo della disabilità diventa anche peggio. Spesso si cade nel pietismo oppure nello stereotipo ma soprattutto a causa del poco tempo si finisce per scivolare nei luoghi comuni e nei termini inesatti.
A parlare di Media e Autismo e Sindrome di Down la giornalista Cristina Mazzariello (Targatocn.it), Guido Marangoni (ingegnere in informatica, scrittore e padre di una bambina con SdD), Maurizio Arduino (Psicologo, Psicoterapeuta, Specialista in Psicologia Clinica, responsabile C.A.S.A. -Centro Autismo e Sindrome di Asperger dell’Asl CN1), Annalisa Sereni (medico, scrittrice, blogger e mamma di un bambino con Sindrome di Down) e Martina Fuga (scrittrice, consulente d’arte, amministratrice di Artkids, una società che produce mostre, libri ed eventi per avvicinare i bambini al mondo dell’arte, presidente di Pianetadown Onlus, consulente per la comunicazione del comitato di gestione del CoorDown e consigliere di AGPD Onlus Milano e mamma di una bambina con SdD).
“Come spesso accade, quando ci si ritrova davvero coinvolti, le prospettive cambiano – ha spiegato l’organizzatrice Angela Pittavino -. È questo che è capitato con la nascita di mia figlia Miriam, bella e sana ma con un cromosoma in più. Di colpo alcuni titoli dei giornali sono diventati sassi capaci di ferire… e conoscendo altre realtà simili a quella della nostra famiglia ho compreso che non ero solo io a non gradire l’approccio che, troppo spesso, alcuni colleghi giornalisti, senza volerlo e per pura ingenuità, avevano nei confronti delle persone con disabilità. Così ho scoperto un mondo in cui tante mamme e tanti papà lottano più o meno efficacemente per cambiare la comunicazione. Non ho potuto che pensare: perché non andare direttamente alla fonte e spiegare cosa non va a coloro che hanno davvero il potere di cambiare la società? I giornalisti. La risposta è sempre stata lì a portata di mano e bastava solo trovare i giusti relatori per dare vita ad un corso di aggiornamento che fosse il primo passo verso una nuova consapevolezza e alleanza. Grazie a questa stupenda quanto difficile professione sono sicura che si potrà dare uno scossone capace di cambiare la mentalità e offrire una nuova prospettiva di inclusione per queste fasce deboli troppo spesso dimenticate”.
“Troppo spesso queste due disabilità vengono trattate come fossero malattie, usando una terminologia inesatta – ha spiegato Cristina Mazzariello -. Questo corso è stata un’occasione preziosa per fare il punto sulla situazione e dare l’opportunità ai giornalisti di approcciarsi in modo corretto e consapevole a questo mondo. Sono tanti gli errori che ogni giorno si possono vedere sulle pagine dei giornali”.
Ha esordito Mazzariello: “La sindrome di Down non è una malattia ma una condizione genetica chiamata Trisomia 21 per la presenza di un cromosoma in più in ogni cellula. Per questo ogni volta che un giornalista titola o scrive “affetto dalla /soffre di/vittima della sindrome di Down” sbaglia perché non è mica un raffreddore! Si deve scrivere semplicemente “Ha la/con sindrome di Down”. Un altro errore molto frequente è scrivere “Un bambino/ragazzo/persona down”. Qui troviamo ben due fattori che rendono questa frase terribile alle orecchie di famigliari e specialisti. Non esiste un bambino down, non è una “razza”, esiste la persona CON sindrome di Down. Non dimentichiamo che dietro a questa condizione genetica c’è sempre una persona: Anna, Miriam o Gabriele… E’ solo una piccola parola in più ma fa una grande differenza”.
Sulla stessa linea d’onda la dottoressa Annalisa Sereni: “Qui arriva anche il secondo errore frutto probabilmente della scarsa conoscenza della “materia”. Il termine “down” non può essere usato come aggettivo perché si tratta di un cognome. Il dottor John Langdon Down nel 1862 ha intuito che alcuni bambini avevano caratteristiche somatiche e mentali simili. Per descrivere i portatori di tale condizione quindi ha coniato l’infelice termine “mongoloide” (direi che riguardo questo termine, bandito da tempo dal mondo medico, non serva ribadire la valenza negativa assunta negli anni, sebbene qualche illustre giornalista l’abbia usato in tv infatti non deve assolutamente essere utilizzato perché considerato molto offensivo per le persone con Trisomia 21). Da qui nasce la definizione di sindrome di Down che ora, in effetti, dovrebbe essere sostituita da Trisomia 21 poiché il genetista francese Jérôme Jean Louis Marie Lejeune nel 1959, ha scoperto che alla base di questa sindrome vi è la presenza di una terza copia (o una sua parte) del cromosoma 21”.
Ha aggiunto Martina Fuga: “È un fatto culturale prima ancora che sociale. E il linguaggio è l’alfabeto di questa cultura in evoluzione. Se sdoganiamo termini come “mongoloide” facciamo un passo indietro culturale di diversi decenni. Se continuiamo a parlare di “malattia”, se continuiamo a dire “soffre” di sindrome di Down, ha una “malattia mentale” facciamo un danno enorme, un danno culturale nei confronti delle persone con sindrome di Down, perché roviniamo anni di lavoro di associazioni di genitori che cercano di cambiare l’immagine di queste persone e la percezione che gli altri hanno di loro sradicando preconcetti pregiudizi e informazioni scorrette sulla sindrome. Scrivere nel modo scorretto delle persone con sindrome di Down va a rafforzare questi preconcetti e lede all’immaginario collettivo della persona con sindrome di Down. Il linguaggio che usate nei vostri articoli incide sulla cultura e sul rafforzamento dei pregiudizi o sulla distruzione di essi”.
Stesso discorso vale per i ragazzi con disturbo dello spettro autistico, come ha spiegato Maurizio Arduino: “Anche in questo caso troppo spesso viene usato il termine “soffre di autismo”. Non è una malattia ma un disturbo del neurosviluppo. Da qui la necessità di sapere, informarsi tramite associazioni o specialisti prima di cadere nella trappola dei luoghi comuni. Una persona con questa disabilità non è il Rainman che tutti ricordiamo al cinema. Il disturbo dello spettro autistico è vasto e ricco di sfumature molto spesso difficili da comprendere”.
“Chiediamo ai giornalisti di essere al nostro fianco in questo difficile cammino, la nostra piccola rivoluzione – spiega Guido Marangoni -. Su Facebook grazie alla pagina Buone notizie secondo Anna qualche passo avanti lo abbiamo già fatto. Anche grazie alla leggerezza e il sorriso della mia bambina con i quali ogni giorno io e la mia famiglia cerchiamo di sfatare i luoghi comuni e gli stereotipi”.