Pensare Ribelle

Anche il solo assistere agli atti di bullismo non ci rende innocenti

Una nostra lettrice ci ha inviato una sua  personalissima riflessione sul bullismo visto dalla cattedra, dopo aver letto dei fatti di Livorno.  Sono ricordi che non pretendono certo di essere universali e grazie al cielo gli insegnanti, come la maggior parte dei ragazzi, sono immuni dal virus del bullismo. Ma assistere alle violenze o anche solo alle dinamiche di ruolo vittima/carnefice, non  rende innocenti. Magari non colpevoli ma sicuramente conniventi.



Sono ricordi ormai lontani quelli tra i banchi di scuola, lontani quasi trent’anni (chi scrive appartiene alla classe 1973). Riemergono a tratti e in particolari momenti, a volte accompagnando il pupo a scuola o recuperandolo alla fine delle lezioni. Sono per lo più ricordi felici, belli che profumano di cartelle e matite ben temperate, zaini pieni di libri quando sono diventata più grande, compiti copiati in fretta e furia tra l’ora di latino e quella di inglese. Insomma ricordi che condivido con la maggior parte di tutti voi, compresi quelli meno belli.

I meno belli affiorano nel mare delle notizie di bullismo che la cronaca nazionale e locale spesso ci “regala”. Sono casi che sembrano circoscritti al sottoinsieme degli studenti nell’insieme più vasto che chiamiamo scuola.

In quell’insieme ci sta il corpo docente che tra un trafiletto e l’altro di ormai ordinario bullismo, pare limitarsi ad assistere ai fenomeni di violenza subita dalle solite vittime: quelle più fragili, strane, diverse.

Come madre di una potenziale vittima – ho un bimbo di dieci anni nello spettro autistico – ammetto che il bullismo mi spaventa pur non avendolo mai conosciuto direttamente come ex scolara e studentessa, né indirettamente tramite mio figlio. Più precisamente, non ho conosciuto il bullo che ti sfotte pesantemente (ma una persona a me molto vicina sì), che ti minaccia, picchia, deruba di soldi, merendine e serenità, ma ho avuto a che fare con episodi inaspettati e spiacevoli che provenivano proprio da quella parte dell’aula dove ti saresti aspettata protezione e giustizia.

Alle medie avevo una compagna di classe piuttosto mascolina nell’aspetto, timida e con evidenti problemi di apprendimento. Capitava che tra una lezione e l’altra i professori buttassero lì una battuta sul suo aspetto poco femminile e sulle sue difficoltà scolastiche. Non saprei riportare episodi precisi, piuttosto la sensazione di isolamento di quella ragazza dai capelli corti e con un solo lobo forato, isolamento amplificato da atteggiamenti di alcuni professori che mi mettevano a disagio (e a maggior ragione la mia compagna).

Per par condicio va detto che c’era una professoressa d’italiano e geografia che aveva colto il disagio di quella piccola donna vestita da maschiaccio, così iniziò a farci studiare a coppie per preparare le interrogazioni. Le coppie, uno studente bravo e uno meno bravo, si affiancavano in classe e anche a casa. Io e Lucia, così si chiamava la mia timida compagna, ci ritrovammo a preparare l’interrogazione di geografia. Per me fu un anno di grazia, tra i disagi della preadolescenza, sbalzi ormonali inclusi, vedere un’insegnante così sensibile alle relazioni tra noi ragazzi, mi diede un senso di protezione e giustizia che non ho mai più provato tra i banchi di scuola. Lucia poi fu bravissima nell’esporre l’economia, le città principali e il territorio della Turchia.

Ma fuori dalla classe c’era un ragazzo di un anno più grande, altissimo e bianchissimo con un accenno di gobba. Era in classe con una mia amica di un anno più grande. Per tutta la scuola era Leopardi e non certo per le sue doti letterarie e poetiche. Lo chiamavano così anche davanti ai professori durante l’intervallo e, lo confesso, lo chiamavo così anch’io. Non ho memoria di un professore che riprendesse lo studente per chiamare Leopardi con il suo nome: Marco, un nome semplice e piuttosto comune. Come semplice sarebbe stato porre fine a quell’ufficio anagrafe sempre gravido di nomignoli da affibbiare alle potenziali vittime di bullismo.

Al liceo episodi simili si sono ripetuti. Come molti adolescenti ho combattuto la mia battaglia contro l’acne a colpi di topexan e dentifricio. Non ero un caso grave ma in classe c’era un ragazzo che doveva essere ben più armato di me. Quel ragazzo un giorno non viene a scuola e allora un professore di quelli che hanno preso sul serio la missione dell’insegnante, che ci teneva ad avere una complicità con la classe, ci spiega che il nostro compagno è assente perché ha perso l’autobus. Abbiamo riso tutti, o almeno a me pare di ricordare così. Però posso immaginare, visto il ricordo che ho di quel momento, che la mia risata e quella di molti di noi, fosse piuttosto un conformarsi all’atteggiamento del professore e a quello di una parte della classe che trovava l’acne un buon pretesto per ridere di chi se la doveva portare in giro tutto il santo giorno.

C’è stato poi il giorno che un nostro professore si è ammalato improvvisamente e allora è arrivata una professoressa di matematica di un’altra sezione a farci supplenza. Inizia l’appello e ogni volta che il nome è quello di una delle nostre compagne più carine, vengono invitate ad alzarsi e a restare in piedi (chi vi scrive è restata seduta).

Sono momenti che posso contare sulle dita di due mani per una carriera scolastica di 13 anni, ma sono episodi che ho vissuto con estremo disagio perché ho sempre percepito fortissima l’impressione che le vittime non avevano nessuna protezione da parte degli adulti. In generale insegnanti e professori sono sempre stati all’altezza del loro compito ma il loro compito sembrava limitarsi all’insegnamento, alle declinazioni dei verbi latini, alla trigonometria.

Le relazioni tra studenti sembravano non avere nessun limite una volta uscite dalla visuale del professore e le vittime designate dai ragazzi erano palesemente vittime anche agli occhi di chi stava dietro la cattedra. Qualcuno seduto su quella cattedra ha fatto una battuta, altri non hanno mai detto nulla né mai si sono comportati in modo da rendere ancora più evidente la condizione di chi riceveva le attenzioni indesiderate degli altri compagni di classe e/o di scuola. Pochissimi sono quelli che hanno tentato di scardinare il codice comportamentale da caserma che ogni classe inevitabilmente si da.

Ecco, ogni volta che leggo di studenti bulli, mi domando se gli insegnanti fossero al corrente dei ruoli di vittima e carnefice all’interno della loro classe, se in quella dinamica da caserma gli insegnanti abbiano tentato di porre un freno, mettere un piede nella soglia per impedire che la porta si chiudesse per lasciare il branco libero di agire indisturbato.

Ovviamente è troppo per la scuola che da sola non può nulla, ma sarebbe già molto parlare di possibile omertà non solo delle famiglie, ma degli stessi insegnanti che con i nostri ragazzi passano a volte più tempo di noi genitori.

Paola

Redazione

La redazione di "Per Noi Autistici" è costituita da contributori volontari che a vario titolo hanno competenza e personale esperienza delle tematiche che qui desiderano approfondire.

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