Così si parlava di “dopo di noi” 80 anni fa
Dieci anni prima della diatriba tra Kanner e Asperger su chi per primo avesse identificato l’autismo, altri studiosi si erano trovati di fronte a casi riconducibili alla neurodiversità e, tra questi, Charles James Cecil Earl che nel 1934 descrisse un gruppo di adolescenti con ritardo mentale che avevano sviluppato un comportamento da lui definito “catatonico”. Earl si interessò di disabilità mentale spaziando su tutti i campi del deficit cognitivo. Di seguito ci sono alcuni passaggi del suo intervento al Congresso di Salute Pubblica, che si svolse a Londra nel 1938. Stupisce la modernità di alcune affermazioni e come niente sia cambiato in più di ottanta anni in tema di qualità degli interventi sulla disabilità. Molti di noi ancora sperano sia possibile un futuro dignitoso per i propri figli.
È sempre stata una tradizione nel nostro paese, così come in tutti quelli civilizzati, di fare qualcosa per aiutare gli indifesi, e tra questi, i ritardati mentali e questa usanza è nata a causa delle tradizioni della nostra cultura, piuttosto che in modo puramente logico. Ma la nostra tradizione sociale ci ha insegnato a considerare il difettoso come qualcosa di diverso da una creatura semplicemente indifesa o semi-indifesa. Tendiamo a sentire che è diverso da noi stessi; in qualche modo un pericolo oltre che un onere economico. Fino al primo decennio del presente secolo il problema non aveva assunto proporzioni serie, ma, in seguito all’introduzione dei moderni metodi di test mentale, quando divenne chiaro che la subnormalità mentale era molto più comune di quanto si supponesse in precedenza, il problema si è reso più difficile e più complesso. Prima di quel tempo, quelli considerati imbecilli e idioti erano stati riconosciuti come mentalmente ritardati. E la società cercò di affrontare le nuove condizioni come aveva affrontato le vecchie, nel vecchio modo tradizionale di fornire istituti nei quali il ritardato mentale potesse vivere, alleviando i suoi compagni dalla difficoltà e dal pericolo della sua presenza tra loro.
Da allora il problema è diventato costantemente più grande, poiché abbiamo capito che non è possibile rinchiudere tutti i subnormali nel paese e che non è solo ingiusto per il ritardato, ma è grossolanamente dispendioso di denaro pubblico, rinchiudere a vita a meno che non siamo sicuri che sia necessario. […]
I ritardati mentali, occorre ricordarlo, non sono una classe omogena e nemmeno una serie di classi distinte. Non c’è una vera linea di divisione tra i migliori dei ritardati e i peggiori dei non-ritardati. Il ritardo mentale, nella misura in cui è una categoria valida, è una categoria sociale e non psicologica. […]
I deboli di mente sono trattati come bambini principalmente in Scuole Speciali; solamente se sono veramente difficili o se le circostanze domestiche sono pessime, approdano alle istituzioni e anche in questi casi molti di loro vanno in scuole speciali residenziali. Quelli di più di 16 anni, se certificati ritardati mentali, di solito vanno nelle istituzioni. L’istituzione non è puramente un centro di custodia; la sua funzione principale è – o dovrebbe essere – l’istruzione. E non c’è posto più adatto per il ragazzo o la ragazza che, avendo frequentato una scuola speciale, è ancora un problema sociale. Ci si stupisce costantemente del miglioramento di questi casi nella prima età adulta e del numero di coloro che possono essere inseriti nella società. […]
Siamo ancora fortemente handicappati dalla carenza di personale qualificato e dalla mancanza di dipartimenti educativi. In sostanza, la nostra funzione in questi casi è educativa piuttosto che di custodia. Non rendi un ragazzo adatto alla società chiudendolo fuori da essa. […]
Veniamo ora alla categoria degli imbecilli, includendo coloro a cui non è possibile insegnare a leggere e scrivere. Cosa dire di loro? Non sono autonomi. Devono essere mandati in istituto? Alla luce delle conoscenze attuali “No, non si può generalizzare; ogni caso deve essere trattato nel merito; e l’istituzionalizzazione di per sé non è affatto una cosa buona”. Ora, nel dire ciò, non sto pensando principalmente ai fondi pubblici ma al beneficio del paziente. […]
Se vogliamo fare un simile passo, dovremmo avere un’idea abbastanza chiara delle ragioni per farlo. Dobbiamo valutare attentamente i pro e i contro, poiché stiamo impegnando sia il bambino che la comunità. Ci sono una serie di ragioni per le quali un bambino potrebbe essere inviato in istituto. Per prima cosa dovrebbe essere mandato là semplicemente perché è impossibile tenerlo a casa e non c’è nessun altro posto dove inviarlo. Oppure dovrebbe essere mandato là con l’idea di istruirlo sia ad essere autonomo che, al limite, a vivere in una casa. L’ istituzione odierna cerca di formare i bambini che sono sotto la sua cura e può fornire molto di quello che la casa non è in grado di fare. Per prima cosa, è un carico enorme per la madre di una famiglia della classe operaia avere un bambino imbecille aggiunto alle altre sue difficoltà. C’è tanto che un bambino normale impara senza che gli venga insegnato – tutta una serie di abitudini personali, la conoscenza di ciò che è pericoloso da ciò che non lo è, la conoscenza di come giocare e con chi giocare, la conoscenza di quello che è proibito in casa e quello che non lo è – tutte cose semplici e ovvie che a un bambino ritardato deve essere insegnato con infinita attenzione e pazienza. L’unico modo con il quale imparare queste cose è tramite la routine, vivendo la quotidianità, facendo le stesse cose più volte nello stesso tempo e allo stesso modo. Tale addestramento è del tutto fuori discussione in una casa. Nell’istituzione è invece una cosa ovvia. […]
Credo che la formazione negli istituti sia essenziale per molti pazienti imbecilli, in particolare quelli delle aree urbane o dei quartieri poveri. Ma mi sento in dovere di dire che non so per quanti di loro. Per motivi generali dovrei pensare che la maggior parte dei bambini imbecilli dovrà sempre passare parte della propria vita in un’istituzione. Ma non credo sia necessario presumere che tutti dovranno trascorrere lì tutta la vita; penso che valga la pena provare a vedere fino a che punto possono essere estesi i nostri attuali metodi per gestirli nella comunità. Lo dico in gran parte nell’interesse del paziente e dei suoi genitori, piuttosto che nell’interesse dell’economia, anche se un tale metodo avrebbe probabilmente un notevole risparmio di denaro pubblico. Il motivo per cui lo dico è che, per quanto sia competente il personale di un’istituzione, e per quanto buona sia la formazione ivi fornita, vi sono alcuni svantaggi nella vita istituzionale che, in alcuni casi, costituiscono un’obiezione. […]
Le obiezioni alla vita in istituto sono principalmente due. La prima è che la routine stessa attraverso la quale viene educato il bambino, sia di per sé una routine artificiale dal punto di vista sociale e che il bambino è suscettibile, se si tenta di reinserirlo in seguito, a sentire nuovamente tutte le difficoltà della società. Soprattutto li sente nella misura in cui è stato abituato ad avere il tempo riempito per lui invece di trovare qualcosa da fare da solo. La routine della vita in istituto è un’arma a doppio taglio, specialmente per l’imbecille, che è più soggetto alla quotidianità di qualsiasi altro bambino istituzionalizzato.
Il secondo punto è, per alcuni aspetti, ancora più importante. L’ambiente normale per un bambino è la famiglia. Dopo tutto la famiglia è l’unità normale della società umana. Nella famiglia il bambino trova gli stimoli e le gratificazioni emotive che sono essenziali per il normale sviluppo. La relazione emotiva tra il bambino e i genitori, tra il bambino e i fratelli e sorelle sono fattori più importanti nel suo sviluppo. Ci sono elementi che non possono essere riprodotti adeguatamente fuori casa, soprattutto nelle grandi istituzioni. Il bambino istituzionalizzato è sempre handicappato nella sfera emotiva. […]
Gli istituti sono grandi e più sono grandi più tendono ad essere rigidi e impersonali. Più grande è l’istituzione, più potente diventa il fattore amministrativo e più difficile diviene l’offerta di personale qualificato sufficiente. Occorre ricordare che il personale di un istituto per l’insufficienza mentale ha un compito molto responsabile, e se tale compito deve essere svolto correttamente, abbiamo bisogno di molte persone veramente qualificate ed esperte. E questo significa pagarli. In altre parole, la quantità di empatia o affetto che il bambino istituzionalizzato ottiene non è solo artificiale, ma è governata in gran parte dalla borsa pubblica, che, a sua volta, è governata dall’atteggiamento dell’uomo nella strada, che può sempre pensare a qualcosa di più importante da fare con il denaro pubblico piuttosto che spenderlo per i disabili. […]
Vorrei dire una parola sul Centro di occupazione come potrebbe essere – e come vorrei che fosse – domani. Vorrei vedere innanzitutto una cooperazione molto più stretta tra il centro di formazione, la scuola speciale e l’istituzione. Al momento, questi tre settori principali sono separati e indipendenti, i loro sforzi non sono coordinati e il personale raramente, se non mai, si incontra.
In secondo luogo, vorrei vedere molta più elasticità nell’intero sistema di gestione del bambino disabile.
In terzo luogo, vorrei vedere un servizio psicologico più sistematico e molto più competente per i difetti; nella scuola, nella scuola speciale, nel centro di occupazione e nell’istituzione, vorrei un sistema di registrazione molto più efficiente, in modo che un bambino trasferito dalla scuola speciale al centro di occupazione, dal centro di occupazione all’istituzione, o viceversa, possa portare con sé una documentazione adeguata della sua storia precedente e dei risultati dell’esame da parte di specialisti veramente competenti.
In quarto luogo, vorrei vedere il sistema del centro di occupazione ampliato e sfruttato. Mi piacerebbe vederlo utilizzato per alcuni dei bambini nelle scuole speciali ma soprattutto mi piacerebbe vederlo usato per gli adulti. È vero che ora c’è qualche tentativo di fare qualcosa per l’adulto disabile, ma con un’organizzazione più forte e un migliore coordinamento dei servizi, sono sicuro che un numero apprezzabile di disabili adulti, attualmente nelle istituzioni, potrebbe essere adeguatamente curato nella comunità.
Gabriella La Rovere