Il Coronavirus uccide 22 donne ospiti in una casa per disabili psichici
Nell’Istituto Bassano Cremonesini di Pontevico (Brescia) dove sono ricoverate persone disabili psichiche, da alcune settimane è scoppiato un focolaio di Covid19 che ha ucciso decine e decine di donne, molte delle quali non hanno ottenuto nemmeno il tampone. Solo nelle ultime ore, grazie ai racconti di alcuni dipendenti che hanno trovato conferma non ufficiale da fonti della direzione, è emersa la dimensione di questa tragedia enorme e sinora dimenticata. (Vai all’articolo con la cronaca completa)
Doveva pur uscire qualcosa, non era pensabile che su più di ventimila morti, nessuno avesse qualche forma di disabilità psichica. È una bugia alla quale noi genitori abbiamo voluto credere per allontanare l’angoscia che non ci fa dormire, la paura che ci blocca, con il cuore in gola, quando nostro figlio fa uno starnuto o qualche colpo di tosse, cose delle quali non avevamo mai dato importanza fino a due mesi fa.
La notizia di ieri riguarda un focolaio scoppiato in una struttura residenziale per disabili nel bresciano. Per il momento ci sono 22 morti e decine e decine di contagiati tra i 320 ospiti. Nessuna meraviglia che di questo non ci sia traccia nei quotidiani nazionali. Forse avremo un’idea dell’ecatombe, quando tutto questo sarà finito. In questi giorni abbiamo nascosto la testa sotto la sabbia, impegnati nella gestione straordinaria di nostro figlio che ha dovuto superare lo sconforto di dovere restare chiuso in casa, di non vedere più le figure educative di riferimento, gli amici, di non potere fare tutte quelle attività che definivano la giornata.
Si è realizzato ciò che più spaventa una persona con neurodiversità: la sospensione del tempo, il restringimento del proprio spazio di azione. E le conseguenze di un cambiamento così repentino della quotidianità sono state il nervosismo alternato ad apatia, l’inappetenza con rinnovati disturbi del comportamento alimentare, la comparsa di nuove ossessioni e stereotipie, la paura di rimanere da solo. La serenità è ritornata quando la situazione di emergenza è diventata essa stessa routine, una paradossale normalità, con attività casalinghe che si fanno di mattina e di pomeriggio. Abbiamo attuato ancora una volta la resilienza affrontando la nostra ora più buia e, come sempre, l’abbiamo superata.
La casa è una prigione sicura nella quale ci siamo chiusi con i nostri figli così tanto amati, ai quali abbiamo dedicato ogni nostra energia, per i quali ci siamo battuti perché venissero loro riconosciuti i diritti fondamentali. Il pericolo del contagio c’è sempre e ognuno di noi si chiede con angoscia “E se mi ammalo, che ne sarà di mio figlio?”, ma anche, “E se lui si ammala, come farà a stare solo in una stanza?”
Il pericolo di un improvviso dopo di noi si è affacciato nelle nostre vite, rese fragili dalla fatica quotidiana. Abbiamo dovuto affrontare ciò che più ci terrorizza, che inconsciamente abbiamo sempre rimandato perché ci sentivamo ancora attivi. Non siamo e non saremo mai pronti a lasciare nostro figlio perché l’amore e l’attenzione non sono replicabili, né trasmissibili, perché è parte di noi, della nostra giornata, di ogni nostro pensiero, di tutta la nostra vita che è stata stravolta e riorganizzata con il suo arrivo.
Per molto tempo niente sarà come prima del 9 marzo, il pericolo per i nostri figli è presente, invisibile. E se qualche anno fa qualcuno osò affermare che erano una categoria non produttiva, il silenzio che nasconde i contagi e le morti nelle strutture protette, dà la misura di come niente sia cambiato nella cattolicissima Italia che si è riscoperta religiosa nell’emergenza. Abbiamo paura, ci sentiamo impotenti, vulnerabili in un clima generale di egoismo e lotta per la sopravvivenza che, sappiamo, premia i più forti. Mai come in questo periodo viviamo il quotidiano, godendo ogni attimo con nostro figlio, scambiando tenerezze, come se veramente non ci fosse un domani.
Gabriella La Rovere