Quel pensiero parassita della strage che spesso accompagna il genitore di un disabile
Mi capita ogni tanto di essere chiamato a commentare un episodio di omicidio-suicidio che vede protagonista attivo il genitore di un figlio disabile. Su questo tema ho scritto più volte, anche in alcuni miei libri. Purtroppo, pur con il passare degli anni, il mio punto di vista non ha avuto motivo di cambiare. Non è certo piacevole ma capita di dover fare i conti con il pensiero insistente di chiudere in maniera cruenta e disperata il lavoro di una vita, solo perché si intravede il vano essersi affannati per cambiare il destino di un figlio, destinato ad essere recluso senza nulla aver commesso per meritarsi il carcere a vita.
Ieri me l’ha chiesto di nuovo il mio giornale a commento dell’ennesimo episodio di strage per disperazione. A distanza di un giorno qui riporto il mio pensiero.
Un uomo di 74 anni ha posto fine alla sua vita e a quella della figlia trentunenne, disabile al 100%. I due corpi sono stati trovati nel box auto della loro casa nella campagna di Varese, sono morti avvelenati dai gas di scarico.
L’uomo aveva scoperto da poco di avere un tumore, la moglie era allettata per una grave malattia degenerativa. Avrà pensato che per la ragazza non ci sarebbe stato un futuro per lui accettabile.
In questa crudele sintesi si riassume una decisione molto frequente, può capitare di non vedere altra via per chi si sente l’unico presidio alla dignità per un figlio dall’autonomia molto limitata.
Ci si trova fatalmente a un punto in cui l’annullamento reciproco può sembrare la soluzione meno dolorosa, la risposta più plausibile a un assillo costante. È quel pensiero che scava un buco nel cervello, giorno dopo giorno. Senza di me come farà ancora a sorridere?
Non si pensi che da un figlio disabile, anche ai massimi livelli, non si possano raccogliere sorrisi. Magari chi ci vede in coppia non lo immagina nemmeno, noi che abbiamo nella nostra progenie la perenne immagine di fragilità però sappiamo, per istinto, di essere l’unico collante che può tenerne assieme ogni frantume.
Adesso dirò qualcosa che susciterà raccapriccio e sdegno, oramai lo so perché accade puntualmente che qualcuno scriva lettere di vibrata protesta ogni volta che, purtroppo, mi viene chiesto di commentare un episodio simile, che al massimo merita le solite striminzite cinque righe di agenzia.
Vi dico che ciò che è accaduto in quel garage non è uno scenario così distante dai tanti che, anche a me, passano per la testa. Soprattutto nelle notti in cui l’idea che il proprio tempo si assottigli diventa insopportabile. Può essere che sia il nostro esorcismo alla media disperazione sottotraccia, quella con cui abbiamo imparato a convivere.
Spesso fingiamo che quel malessere insistente, abbarbicato alle nostre budella, sia solo uno dei tanti acciacchi che vengono con l’età. Non dobbiamo però prenderci in giro, è un pensiero parassita che scava gallerie nella nostra coscienza, un’ulcera che si allarga, un arrovellarci che non abbandona nemmeno un secondo chi, come noi, vede un figlio crescere e mantenere i bisogni di un bambino.
Non mi si parli più di leggi sul dopo di noi, non mi si dica che ogni cittadino ha diritto a una vita decorosa, non mi si chieda di fare appello alla misericordia di chi opera in nome di dio. Soprattutto nessuno di chi vive di politica provi più ad illudermi che possa esserci un improvviso cambio di orizzonte, soprattutto non lo dica a chi, come me, ha l’impressione che tutti i possibili orizzonti siano stati scandagliati.
L’uomo di cui qui parliamo ha ancora una volta dato una lucida risposta alla mancanza di attenzione istituzionale per la dignità delle persone disabili. Non aveva più tempo di aspettare, per lui come per tanti prima di lui, non restava che la più atroce soluzione al problema che nessuno ha interesse di risolvere.
Inorridite pure. Strappatevi le vesti e fatemi l’elenco delle fantastiche soluzioni che offre il vostro istituto, la vostra cooperativa, la vostra opera pia. A noi non basta che i nostri figli diventino la vostra retta, vorremmo che continuassero a sorridere come fanno con noi. Non ci basta la vostra minestrina assicurata e la passeggiata in gruppo lungo i viali delle città.
Per quello che, ogni mese, i nostri figli possono fare incassare alle vostre discariche per umani fuori standard, vorremmo per loro quello che spetterebbe a ogni essere umano; la dignità di una vita sociale inclusiva e un’attività che assomigli a un lavoro. Soprattutto sogneremmo di far loro provare anche la sventatezza, la carezza di ciò che esiste di bello, il piacere della leggerezza.
Per questo non li molliamo, per questo molti di noi se li tengono stretti addosso anche quando ci sovrastano per statura e stazza.
Per questo, poi, talvolta accade che quando il nostro unico orizzonte è un salto nel buio, il salto decidiamo di farlo portandoceli dietro.