Il destino del fratello “fortunato” di un disabile
“Non so se sia peggio stare sulla sedia a rotelle o avere un fratello sulla sedia a rotelle!”. Una frase crudele e spietata ma realistica. Mi ha abbastanza sorpreso sentirla pronunciare da un padre, proprio in un vecchio film della Disney di venti anni fa. La trama romanzava la vera storia di Justin Yoder, un ragazzino con spina bifida e idrocefalo, giustamente un po’ infame e assai rompicoglioni come quasi tutti i suoi coetanei. Il piccolo è in feroce competizione con il fratello maggiore Seth, al contrario super performante in ogni possibile sport, bloccato comunque dal macigno di avere come continuo riferimento familiare la fragilità di Justin. Nel pur irrinunciabile happy ending, la storia mette perfettamente in luce il dramma quotidiano di un essere umano in crescita, costretto a condividere i genitori con un fratello disabile.
Tom Cruise è invece l’irreale sibling addomesticato nell’epico “Rain Man”, film colpevole di aver creato la più tenace fanta narrazione sugli autistici prodigiosi. Lui si accorge del fratello maggiore Raymond, chiuso a vita in un istituto, solo per una cospicua successione di cui vorrebbe impossessarsi. Alla fine però si intenerisce e rinuncia al malloppo, quando lo rintraccia come tenero e misterioso ricordo della sua memoria fanciullesca.
Ho citato, non a caso, due fiction con le situazioni chiave in cui una famiglia agisce di fronte alla necessità di dover gestire l’estrema fragilità di uno dei figli. Due scelte possibili di cui nessuna sarà mai perfetta; o si disloca altrove il problema o si sceglie di tenerselo in casa. Entrambe le opzioni procureranno un distruttivo carico emotivo al sibling, anche se in tempi diversi e con effetti colpevolizzanti diversamente erogati.
È difficile raccontare cosa possa significare dovere convivere con un’idrovora affettiva accanto, è una creatura a cui si vuol certamente bene, ma che accentra ogni possibile attenzione da parte dei comuni genitori. In più tutto questo avviene nella fase della vita in cui ognuno vorrebbe sentirsi al centro di un universo, di cui rappresenta il tesoro più prezioso.
Al sibling qualcosa di cui sentiva di aver diritto mancherà comunque, sia lui maggiore o minore dell’”altro”. Crescerà nella sensazione che ogni suo bisogno sia trascurabile di fronte alla voragine incolmabile di attenzione che richiede il fratello. Ogni suo successo sarà minimizzato, rispetto a o ogni infinitesimale progresso nell’autonomia del nato svantaggiato.
E così, non può essere altrimenti. Per quanto la famiglia possa essere accorta e disponibile sarà impossibile l’equa distribuzione genitoriale nella troppo diversa figliolanza.
Infine arriverà l’età adulta anche per il sibling, dopo una sofferta e impervia elaborazione di quello che gli è stato rubato. Spesso compensa pensando che lui potrà prendere il volo, mentre l’altro resterà comunque ancorato.
Non è finita però. Il sibling sa che è solo un rimandare la sua presa in carico di quel fratello non autosufficiente, di cui i genitori un giorno non potranno più occuparsi. Dovrà caricarsi sulle spalle anche l’altra vita, quella che ha sempre saputo che, prima o poi, gli sarebbe toccata in eredità. (LA STAMPA 31 gennaio 2021)