Team Autismo Tor Vergata

Tratti autistici e disforia di genere: c’è un legame?

Con il passaggio dal DSM-IV al DSM-5 c’è stata una grande rivoluzione: considerare l’autismo uno spettro, caratterizzato dunque da un’eterogeneità di sintomi accomunati sia dalla presenza di comportamenti e interessi ristretti e ripetitivi, sia da persistenti difficoltà socio-relazionali che possono manifestarsi con un’intensità variabile e con ripercussioni diverse sul funzionamento globale della persona.

Analogamente, il concetto di genere sta lentamente assumendo, almeno a livello sociale, le caratteristiche di uno spettro. Superata infatti la dicotomia maschile-femminile, tutti quegli individui, la cui identità di genere – quell’intimo sentimento di sentirsi maschio o femmina – non coincide a pieno con il proprio sesso biologico, possono trovare la loro posizione all’interno di questo continuum, piuttosto che ai suoi estremi. Queste diverse posizioni, che non hanno una connotazione negativa né tantomeno patologica, rappresentano la cosiddetta varianza o non conformità di genere. Solo in rari casi tali posizioni sono vissute con disagio, ansia, depressione e con un forte desiderio di cambiare il proprio corpo per conformarlo al genere percepito, generando nelle persone che le vivono una condizione di malessere interiore riconosciuta dal DMS-5 come Disforia di Genere.

A un analisi superficiale può sorprendere che ci sia una sovrapposizione tra questi due spettri. Tuttavia, è ormai nota alla comunità scientifica un’associazione significativa tra il Disturbo dello Spettro Autistico (ASD) e la Disforia di Genere (DG). Ciò significa che la presenza simultanea, nello stesso individuo, di queste due condizioni è molto più frequente rispetto a quanto epidemiologicamente atteso. Recenti studi stimano, infatti, che i tassi di prevalenza dell’ASD nella popolazione con DG siano dalle 4 alle 7 volte superiori rispetto a quelli che si registrano nella popolazione generale. Inoltre, anche in assenza di una diagnosi clinica di ASD, tratti autistici vengono segnalati sempre più spesso negli individui che non si identificano nel genere che corrisponde al proprio sesso biologico. Questi dati hanno portato diversi autori a concludere che la varianza di genere sia più comune negli individui con ASD rispetto ai neurotipici.

Ovviamente, queste affermazioni vanno interpretate con gran cautela. Non solo vi è, infatti, un’oggettiva difficoltà nel ricavare dati precisi dai numerosi studi presenti in letteratura sull’argomento, a causa delle diverse metodologie adottate e delle differenze nella caratterizzazione dei campioni oggetti di studio, ma le percentuali di prevalenza potrebbero anche essere viziate da una stima, per eccesso o per difetto, poco veritiera. Difatti, da un lato è probabile che la determinazione della prevalenza della DG nella popolazione ASD sia sottostimata per via delle note difficoltà socio-comunicative che potrebbero ostacolare l’esternazione di vissuti incongrui. Dall’altro, gli stessi sentimenti disforici e l’eventuale scarsa accettazione della condizione esperita dal soggetto da parte del contesto sociale in cui è inserito potrebbero determinare, nella persona con DG, difficoltà socio-relazionali tali da assumere il carattere di atipie, finendo per sovrastimare la prevalenza dell’ASD nella popolazione con DG.

Tuttavia, un legame tra la condizione autistica e la non conformità di genere esiste, sebbene siano ancora poco chiare le ragioni alla base di questa associazione. Va considerato inoltre, che l’interpretazione di questo fenomeno è ulteriormente complicata dalle ridotte conoscenze a disposizione di come un’identità di genere si formi nell’ambito di uno sviluppo atipico quale quello dell’ASD. Nonostante ciò, diverse ipotesi sono state suggerite per tentare si spiegare la sovrapposizione tra le due condizioni. Queste ipotesi, che vedono coinvolti fattori ormonali, sociali e psicologici, sono però non esaustive se prese singolarmente. È probabile, pertanto che ci sia una sinergia tra i suddetti fattori nel determinare quest’associazione.

A tal proposito, si segnala un interessante lavoro scientifico, pubblicato recentemente sul “Journal of Autism and Developmental Disorders” da un gruppo di ricerca britannico dell’Università del Kent. Tale studio è stato condotto prendendo in esame un campione di 126 giovani adulti, di cui due con diagnosi formale di ASD, ai quali è stato chiesto di compilare dei questionari specifici di autovalutazione per misurare il numero di tratti autistici, i sentimenti disforici avvertiti negli ultimi 12 mesi, i comportamenti crossgender rievocati dall’infanzia e di effettuare un test psicologico finalizzato a valutare la loro abilità di mentalizzazione. Per mentalizzazione si intende quella competenza cognitiva che ci consente di immaginare ciò che avviene nella nostra mente e in quella degli altri, meglio nota infatti come “teoria della mente”. È grazie a questa abilità che siamo in grado di capire e predire il comportamento proprio e altrui sulla base di rappresentazioni degli stati mentali (intenzioni, emozioni, sentimenti, desideri, credenze). I punteggi ottenuti sono stati poi analizzati statisticamente dal gruppo di ricerca.

È emerso che a maggiori tratti autistici autoriferiti corrispondevano sentimenti disforici più intensi provati in tempi recenti, così come risultavano più numerosi i comportamenti cross-gender rievocati dall’infanzia. Inoltre, più scarse erano le prestazioni nel compito di mentalizzazione e più marcati erano i tratti autistici e i sentimenti disforici di genere registrati.

Per comprendere meglio la natura delle suddette relazioni, gli autori hanno poi condotto ulteriori analisi statistiche che hanno evidenziato che tra i tratti autistici e i sentimenti disforici non c’è un legame diretto, bensì il nesso tra le due variabili dipende da una terza, mediatrice, che è rappresentata proprio dalla mentalizzazione. In particolare, è stato notato che la relazione tra tratti autistici e sentimenti disforici di genere era particolarmente evidente quando la capacità di mentalizzazione era bassa e completamente assente quando il livello di questa capacità era alto.

Sebbene prima di poter trarre conclusioni certe e costruire una teoria sulla base di questi risultati siano necessarie ulteriori repliche, possibilmente anche ampliando la numerosità del campione oggetto di studio, questo lavoro fornisce la prima prova a favore del potenziale ruolo della mentalizzazione nella determinazione dell’identità di genere. Difatti, in linea teorica, come sostengono anche gli autori del suddetto studio, il deficit di teoria della mente proprio delle persone con ASD, potrebbe parzialmente spiegare la sovra rappresentazione dei tratti disforici di genere nella popolazione autistica.

Tipicamente l’identità di genere comincia a formarsi nei primi anni di vita, per continuare a definirsi progressivamente negli anni e arrivare a essere, al termine dell’adolescenza, più o meno consolidata. Questo processo subisce, oltre alle spinte determinate da fattori biologici intrinseci all’individuo, anche le influenze socio-culturali degli stereotipi di genere. Inoltre, sembra plausibile affermare che affinché giunga a compimento sia necessaria anche una forte abilità di mentalizzazione. Per potersi riconoscere in un genere, è difatti necessario sia interiorizzare le qualità che lo connotano, comprese quelle psicologiche, attraverso il riconoscimento delle stesse negli altri, sia provare quelle emozioni autocoscienti, come imbarazzo e vergogna, che normalmente contribuiscono al desiderio di conformità sociale. Questi due passaggi potrebbero non avvenire o avvenire in maniera incompleta nelle persone con ASD, pertanto queste potrebbero tendere ad esprimere la propria identità in modo diverso o a percepirla in modo più fluido, oscillando da una posizione all’altra nel corso del tempo. Tuttavia, sebbene tali supposizioni si rivelino molto interessanti per poter meglio inquadrare il processo di formazione dell’identità di genere nell’ASD, sicuramente non sono sufficienti a chiarire l’intera questione.

Auspichiamo quindi che, partendo da queste considerazioni, la comunità scientifica fornisca al più presto ulteriori contribuiti. Studi aggiuntivi si rendono necessari al fine di caratterizzare meglio la natura dell’associazione tra le due condizioni. Solo in questo modo sarà possibile definire le più adeguate modalità di presa in carico per quelle persone che vivono una incongruità di genere, a maggior ragione se anche in possesso di una concomitante diagnosi di ASD.

Inoltre, è fondamentale che i caregiver e il personale che si occupa di persone con ASD abbiano la consapevolezza che, all’interno dello spettro, l’espressione del genere potrebbe manifestarsi con una gamma più diversificata di sfumature. Andrebbe quindi prestata una maggiore attenzione, non solo agli aspetti relativi all’identità di genere, ma anche nel cogliere eventuali richieste di aiuto che potrebbero essere offuscate, mal formulate o addirittura non verbalizzate a causa delle difficoltà socio-comunicative che contraddistinguono l’ASD stesso, ma che, come per le persone normotipiche, potrebbero essere causa di disagio e di compromissione del benessere psico-fisico.

Valentina Dionisi e Luigi Mazzone

UOSD di Neuropsichiatria Infantile, Policlinico Tor Vergata, Roma

Redazione

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