Il nonno caregiver che ballerà coi lupi
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Oggi ho deciso, ballerò coi lupi, ballerò con mio nipote autistico. Accetto la sfida del suo viaggio da neurodivergente tra neurotipici, dei suoi linguaggi sconosciuti, del suo sguardo nascosto, delle sue paure a vivere tra chi non conosce il suo mondo. Sarò suo custode e della sua famiglia con una presenza leggera e di totale disponibilità. Non vi è altro modo che offrire un tempo totale perché non si educa a tempo determinato, non si ama a ore, non si vive offrendo l’intervallo tra un set e l’altro della propria vita. Con la sua famiglia farò il lungo viaggio di concreta utopia verso Santiago de Compostela con uno zaino leggero alla ricerca dell’empatia, dell’affetto senza ricompensa, dell’intersoggettività nuova, del vivere nella riserva indiana della disabilità segnata dal labile confine oltre il quale un figlio disadatto diverrà, si spera, un adulto “quasi adatto” e ma sempre diverso.
La mente umana è estremamente complessa e variegata, e quella neurodivergente lo è anche di più. Non esistono interventi validi generalizzati perché ogni autismo è specifico per quel bambino e la vita di un caregiver a contatto con forme difficili di autismo si rivela un laboratorio per sperimentare soluzioni pratiche cucite su misura per i problemi di tutti i giorni, dai disturbi del sonno ai comportamenti antisociali, al controllo delle necessità fisiologiche, con poche certezze di apprendimento duraturo. L’autismo è sempre originale ed è un modo di essere, un’esperienza pervasiva che colora o scolora qualsiasi situazione, sensazione, pensiero, emozione o incontro. L’idea corrente che l’autismo sia una patologia a cui contrapporre una “cura” deve essere valutata con spirito critico e grande delicatezza.
Oggi sappiamo che non è possibile “curare” l’autismo senza modificare gli stati profondi della persona, senza renderlo automa, senza determinare un nuovo mix comportamentale dalla previsione incerta. Di qui il timore che tecniche maldestre e senza riscontro scientifico determinino condizionamenti impropri soprattutto a lunga scadenza nella fase adulta. Un tema di grande attualità nell’approccio educativo del bimbo autistico è il dilemma operativo tra esaltare le sue qualità e i suoi talenti rispettando la sua natura, oppure ridurre i suoi comportamenti asociali per renderlo più socialmente accettato (si veda in proposito Ellen Notbohm, 10 cose, Erickson, 2019). In questa dicotomia, quale genitore e quale operatore ha la sicurezza dell’esito finale, magari tra 30 anni?
Purtroppo oggi la ricerca psiconeurologica non ha ancora dati di metanalisi completi poiché parte degli approcci educativi attuali risalgono a 5-10 anni fa (si veda in proposito Alberto Vanolo, La città autistica, Einaudi, 2024, capitolo primo). Ma si deve sperare perché negli ultimi anni sono stati fatti passi importanti e si comincia ad essere ottimisti. Ma ancora oggi la famiglia di un bambino autistico deve cozzare, non sull’incertezza o la certezza della ricerca, ma sulle inefficienze del sistema sanitario, non tanto per deficit di competenza, quanto per limitatezza di investimenti affidandosi troppo spesso a operatori precari a contratto che per forza di cose non possono assicurare continuità di trattamento (e si sa quanto questo sia fondamentale per un bambino autistico).
Per il servizio sanitario l’autismo è assai costoso e di lungo trattamento procapite a cui oggi si associa una crescita del numero di casi. Sul piano socio-gestionale il servizio pubblico è centrato sul minore, mentre quello privato risente del fatto che i committenti sono i genitori. In termini teorici le due proposte di servizio si equivalgono se basati sulla qualità, mentre in termini pratici quello pubblico risente di tempistiche lunghe, mentre quello privato risente della pressione dei committenti. Alla fine globalmente, tranne per in eccezioni pubbliche o private, l’assistenza al bambino autistico è alla mercé di un sistema che mostra luci e ombre. In questo stato di cose c’è bisogno di una maggiore presa in carico non solo di caregiver genitoriali, ma anche parentali che affianchino la famiglia, anche con un sostegno economico da parte del sistema sanitario regionale (e in questo senso alcune Regioni si stanno muovendo).
Malgrado le difficoltà citate, sì, ballerò coi lupi perché l’autismo di mio nipote non significa non avere la possibilità di costruire insieme di una vita felice e significativa. Certamente avremo difficoltà e paure, certamente per ragioni anagrafiche non riuscirò a vederlo adulto perché il mio sarà un impegno breve che desidero rendere significativo per lui e soprattutto per me: un viaggio di dedizione, di speranza e di illusione. Sì, imparerò a ballare con i lupi come Kevin Costner nel noto film: una metafora che insegna a leggere e capire chi vive in un altro mondo e che può essere vissuto solo se lo scelgo nella libertà vocativa del volontario ad libitum, lontano dalla costrizione della responsabilità, ma guidato dal ritmo delle sue mani che danzano come farfalle.
Nel mio zaino metterò tanti libri che mi permetteranno di tradurre i suoi silenzi, i suoi sguardi sguinci, ma anche il calore di chi capisce e mi rimarrà amico, ma anche quella di indifferenza dei tanti che non capiranno i disegni delle nuvole nell’autunno della vita. Nello zaino metterò anche le parole dei tanti amici di penna incontrati nel web, metterò le loro parole comprensive, ma anche la loro e la mia rabbia, il peso amaro dell’ingiustizia per chi è diverso e quello etereo impalpabile del destino. Il mio sarà uno zaino piccolo dove però ci sarà sempre spazio per il sorriso di mio nipote che non saprò mai se è dedicato a me o a un suo fugace pensiero.
Sono sicuro che mi penserà anche se non riuscirà a parlare, anche se non riuscirà a restituire una carezza, e so che nel silenzio mi prenderà la mano e mi porterà tra i suoi giochi sempre ripetitivi, tra le sue cose sempre in un ordine che solo lui capisce, tra i suoi disegni che non riesco a comprendere e tra il suo dispetto perché io non capisco.
Rimarrò con il mio lupo solitario davanti al caminetto guardando, ciascuno a suo modo, le evoluzioni delle fiamme e godendo della vicinanza senza parole di chi confida in connessioni nervose che fatichiamo a decifrare (io nei suoi riguardi e lui nei miei), ma che ci intrigano per la loro complessità, profondità e imprevedibilità. Come Costner in Balla coi lupi voglio porgere un succulento bocconcino al mio lupetto che si ritrae, ma che è tentato ad accettare. Voglio stimolare la sua libertà, la sua curiosità mantenendo la distanza nel rispetto della sua scelta, lasciando agli operatori gli interventi professionali mirati, ma discutendo criticamente con loro gli effetti del loro e del mio prendermi cura.
Voglio mettere a confronto la sua disabilità in diminuzione con la mia in crescita, il suo percorso incerto verso l’autonomia con la mia non autosufficienza futura. Vorrei lasciar vagare i pensieri nelle praterie della conoscenza partendo dal chi siamo veramente, dal chi siamo diventati e dal chi dovremmo essere, concetti più senili che infantili, che però riguardano una selettività comportamentale che idealmente lega l’autismo all’invecchiamento.
In buona sostanza, constato che io e mio nipote fatichiamo a riconoscere come parte di noi il nostro sé nel futuro. Per questo e per il suo delicato visino, con lui mi voglio sentire anche incosciente, perché non c’è nulla di più devastante di un futuro certo. Il nostro viaggio comincia ora …
Alessandro Bruni, nonno caregiver.
Già ordinario di Biologia farmaceutica a Genova e Ferrara dove ha anche ricoperto il ruolo di Preside della Facoltà di Farmacia. La sua è una famiglia affidataria dal 1988 e ha avuto stretti rapporti con il servizio sociale. E’ stato papà di 10 figli, ora nonno attivo di 16 nipoti.