Il figlio disabile pensato da Sorrentino a me ha fatto male
Il nuovo film di Paolo Sorrentino “Parthenope” ha trionfato al box office, nulla di dire sulla riuscita dell’operazione. È stato forse deluso chi si sarebbe aspettato un’orda di scandalizzati per la sequenza di sesso in Cattedrale, dove la protagonista, vestita solo del tesoro S. Gennaro, si concedeva alla lussuria dell’arcivescovo di Napoli, peloso e in mutande. Persino “Famiglia Cristiana” ha giudicato l’amplesso con indulgenza.
Che poi il film possa essermi piaciuto o meno è indifferente, rispetto a una mia personalissima, come del tutto opinabile, sensazione di soffocante disgusto. Nasce da una scena su cui probabilmente nessuno, che non abbia un’esperienza di paternità simile alla mia, avrà potuto vedere alcunché di disdicevole.
Silvio Orlando è un personaggio chiave nella formazione di Parthenope, che tra le tante passioni coltivava quella per l’antropologia. È il burbero professor Devoto Marotta, con cui la ragazza si specializzerà e grazie a cui otterrà la docenza. Tra i due si stabilisce un rapporto di reciproca stima e frequentazione, tanto che il professore gradualmente la metterà a conoscenza della realtà familiare, di cui si mormorava, riguardo a un suo figliolo “con problemi”.
Il professore si divide tra l’Università e il ruolo di caregiver di un figlio, di cui all’inizio si percepisce solo la presenza dai versi gutturali che venivano da una stanza, attigua a quella in cui riceveva la sua allieva prediletta. Fino a che un giorno permette alla sua allieva prediletta di entrare nella stanza del figlio. Qui io mi sono sentito male.
Non perché voglia negare alla creatività di un artista di poter immaginare un figlio disabile come meglio lui creda. Solo che la rappresentazione di quel ragazzo, realizzato con le caratteristiche abnormi di un freak, mi ha ferito.
Mi si obietterà che esseri umani simili possono sicuramente nascere, quindi fanno parte del ventaglio delle probabili difformità rispetto a un modello standard.
Sicuramente, Sorrentino avrà preferito costruire una creatura che sembra uscita da un incubo horror, per non rischiare di coinvolgere una delle categorie di disabili più rappresentate e rappresentabili.
Però, mi si creda, non c’è rancore e va bene così. Gli effetti speciali alla fine cambiano poco la realtà del sentire. Il solo intuire la presenza di un figlio, chiuso a vita in una stanza, davanti a una tv accesa e dove il padre pensionato lo assiste dormendo su un lettino, sarebbe stato sufficiente per togliere il respiro a chi, l’incubo di situazione del genere, lo vive ogni giorno. (LA STAMPA 24 novembre 2024)
PS
Sono uscite varie interpretazioni sul simbolismo del ragazzo disabile “fatto di acqua e sale”. Per alcuni rappresenterebbe la parte nascosta e indicibile di Napoli, per altri indicherebbe il compito dell’intellettuale di custorire, curare e soffrire Napoli. Per altri addirittura citerebbe Miyazaki! Può essere e mi va bene tutto, ciò non toglie che a me e quelli come me ha fatto del male vederlo. Mai vorrei con questo che nessun artista si limitasse nella sua libertà di esprimersi. Non tutti però abbiamo lo stesso sguardo sulle metafore, persino su quelle a più alto tasso di anelito poetico.