Oliver Sacks lo straodinario narratore dei cervelli ribelli
Oliver Wolf Sacks è stato uno dei più brillanti raccontatori di cervelli ribelli, era un medico neurologo e psichiatra chimico, scrittore e accademico britannico dalla vita illustre e variegata. Le misteriose e affascinanti singolarità della mente umana che vengono comunemente definite patologie furono da lui raccontate con l’entusiasmo di un indagatore di mondi inesplorati. Della sua ricchissima esistenza Gabriella La Rovere ha approfondito i passaggi più prossimi al nostro vivere quotidiano.
Nutro la speranza che alcuni dei miei libri possano continuare a parlare alla gente dopo la mia morte
Il prossimo 30 agosto saranno quattro anni dalla morte di Oliver Sacks, neurologo di fama mondiale, grande divulgatore scientifico, straordinario narratore di storie nelle quali la clinica e la prognosi quoad vitam sono strettamente legate all’individuo, contravvenendo spesso quanto scritto nei trattati di medicina.
Nacque a Londra il 9 luglio 1933. I suoi genitori erano dei medici, come pure i due fratelli più grandi. Appassionato di chimica e biologia marina, quando ottenne la borsa di studio per Oxford, si trovò di fronte alla scelta se rimanere fedele alla zoologia oppure seguire i corsi preparatori agli studi di medicina. Era un ragazzo dotato di un’intelligenza brillante, fuori dal comune, in grado di disquisire su tutto grazie alla sua voglia di conoscere e approfondire ogni argomento, anche il più lontano dalla sua formazione. Timido ed insicuro, nonostante la borsa di studio aperta, ripeté l’esame di ammissione all’università per ben quattro volte. Trovava difficile rispondere ai test con un sì o un no, mentre era a proprio agio quando poteva argomentare scrivendo dei brevi saggi. Accanito lettore, frequentò la biblioteca del Queen’s College, soprattutto i locali sotterranei che contenevano i libri più antichi e rari. Rimase incantato dall’Historia Animalium di Conrad Gesner, come lui studioso di varie scienze, e lesse tutte le opere di Darwin e di Thomas Browne. Nonostante fosse cresciuto con i libri di narrativa dell’Ottocento, le catacombe della biblioteca lo introdussero alla letteratura di Johnson, Pope, Hume e Gibbon. Con i primi soldi ottenuti vincendo un premio universitario, si comprò i dodici volumi dell’Oxford English Dictionary che lesse per intero mentre era studente a medicina.
Si laureò nel 1958 e subito dopo entrò come interno al Middlesex Hospital frequentando nei primi sei mesi il reparto di medicina e negli altri sei quello di neurologia. Si accorse subito del grande divario tra la teoria e la pratica.
Visitare i pazienti, ascoltarli, cercare di entrare nelle loro esperienze e nelle loro difficili situazioni (o almeno immaginarle), sentirmi preoccupato per loro, assumermi la responsabilità dei loro casi: per me erano tutte cose completamente nuove.
L’interesse di Oliver per i meccanismi fisiopatologici che coinvolgono il cervello trova in parte spiegazione nella sua esperienza personale. Il fratello Michael era stato fin da piccolo un po’ “strano”, solitario, leggeva moltissimo attingendo dai libri la sua conoscenza del mondo. In collegio fu preso di mira dai bulli con vessazioni di ogni tipo e forse questa vicenda contribuì allo sviluppo di una grave psicosi che si aggravò con allucinazioni e deliri. Non riusciva più a dormire o a riposare, camminava incessantemente per la casa, spesso urlando, scagliando oggetti per terra. All’età di sedici anni Michael fu ricoverato in un ospedale psichiatrico e subì ben dodici trattamenti con shock insulinico che all’epoca (1944) era l’unica terapia di elezione per la schizofrenia. La malattia mentale in tutta la sua drammaticità si abbatté sulla famiglia.
Ci terrorizzava e ci gettava in un profondo imbarazzo: come potevamo invitare a casa nostra amici, parenti, colleghi, chiunque, con lui che delirava e imperversava al piano di sopra? E cosa avrebbero pensato i pazienti dei miei genitori, che avevano entrambi lo studio in casa? (…) Nella nostra vita si insinuò così un senso di vergogna, di stigma e di segretezza che rese ancora più difficile la realtà della situazione di Michael.
Si trasferì a San Francisco dove lavorò con Grant Levin e Bert Feinstein del Mount Zion Hospital, due neurochirurghi pionieri della chirurgia stereotassica, una tecnica che consentiva di inserire un elettrodo in precise zone del cervello, non accessibili con la chirurgia convenzionale. Superò l’esame di stato e prima di riprendere il lavoro decise di fare un viaggio in moto attraversando gli Stati Uniti, per poi risalire verso il Canada e l’Alaska: quindicimila chilometri per conoscere nuovi posti, incontrare gente e visitare altre università.
Dopo un periodo all’UCLA dove conseguì la specializzazione in neurologia, si trasferì a New York per svolgere un programma di ricerca in neurochimica e neuropatologia come borsista presso l’Albert Einstein College of Medicine. Purtroppo, pur desiderandolo, non si dimostrò un buon ricercatore: le sue distrazioni e le azioni maldestre provocarono diversi danni, la perdita di dati importanti vanificando così mesi di lavoro. Il suo professore gli consigliò di dedicarsi alla clinica e questo cambiò la sua esistenza e quella di molte persone.
Nell’autunno del 1966 cominciai a visitare i pazienti del Beth Abraham, un cronicario affiliato all’Albert Einstein College of Medicine. Mi accorsi subito che, tra i suoi cinquecento ricoverati, un’ottantina di pazienti, dispersi in vari reparti, erano i sopravvissuti della straordinaria pandemia di encefalite letargica dilagata in tutto il mondo al principio degli anni Venti.
Nella letteratura medica, le pubblicazioni sulle sindromi post-encefalitiche erano poche. Ciò che lo colpì fu la straordinaria variabilità clinica della malattia, mai uguale a se stessa in due pazienti diversi. La sindrome comprendeva una grande gamma di disturbi ad ogni livello del sistema nervoso e nella fase cronica si manifestavano segni di parkinsonismo. Negli anni Cinquanta si era scoperto che il cervello parkinsoniano mancava di un neurotrasmettitore – la dopamina – e che perciò fosse possibile la normalizzazione somministrando il farmaco L-dopa. Visto alcune analogie tra il Parkinson e l’encefalite letargica, Oliver Sacks pensò di usare questa stessa sostanza anche per i suoi pazienti. I risultati furono incredibili, tutti sembrarono “risvegliarsi”; poi, però comparvero gli effetti collaterali, diversi da paziente a paziente, tanto che non fu possibile stabilire la dose minima efficace del farmaco. Questa esperienza venne raccontata in un libro “Risvegli”, pubblicato nel 1973, dal quale venne tratto il film omonimo con Robin Williams e Robert De Niro.
Molto importante è stata la sua esperienza successiva al Bronx Psychiatric Center, detto comunemente “Bronx State”. All’interno c’era il Reparto 23 che ospitava giovani adulti con autismo, ritardo mentale, sclerosi tuberosa e schizofrenia ad esordio precoce.
A quel tempo l’autismo non era un tema scottante, tuttavia a me interessava, e quindi accettai l’offerta.(…) Nel Reparto 23, però, vigeva un cosiddetto programma di modificazione comportamentale che faceva leva su ricompense e punizioni. Io detestavo vedere come erano trattati i pazienti, a volte chiusi a chiave in camere di isolamento, lasciati senza cibo o sottoposti a misure di contenzione.
Anche qui Sacks si mise ad osservare attentamente i pazienti cercando di scoprirne il potenziale per poi coinvolgerli in attività di gioco pertinenti alle loro peculiarità. Nel caso di due gemelli autistici, calcolatori di calendario, il gioco consisteva nella ricerca dei numeri primi; a chi aveva un talento per il disegno o la musica, proponeva divertimenti che interessavano le arti visive e quelle coreutiche. Il suo approccio era totalmente diverso, controcorrente, rivoluzionario. Per la prima volta portò Steve, un ragazzo autistico particolarmente difficile e violento, fuori dall’ospedale. L’esperienza fu indimenticabile per entrambi. Questo metodo, frutto di osservazione e sperimentazione, non solo mise in dubbio le capacità educative degli operatori, ma dimostrò come fosse possibile una relazione efficace senza ricorrere a farmaci antipsicotici al solo scopo di sedare il paziente. Come fatto in precedenza, raccolse una serie di appunti per farne un altro libro che, purtroppo, non fu mai dato in stampa. Oliver bruciò tutti gli scritti in un momento di rabbia privando il mondo intero di riflessioni e considerazioni sull’autismo. Fu ingiustamente accusato di molestie sessuali, unico modo infame che operatori e sanitari utilizzarono per togliere di mezzo un individuo scomodo. Il tempo poi gli dette ragione e venne scagionato da ogni accusa.
Il suo interesse per l’autismo continuò. Nel libro “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” (1985) descrisse il caso di José considerato un ritardato senza speranza, che manifestava con il disegno una sorprendente capacità di percezione della realtà. Era vissuto per quindici anni chiuso in casa, relegato in una stanza sotterranea a causa di crisi epilettiche intrattabili, comparse dopo una febbre molto elevata. Aveva una passione per le riviste illustrate, soprattutto quelle di storia naturale e, quando non era in preda alle convulsioni, cercava mozziconi di matita con i quali disegnare ciò che vedeva. L’aggravamento del quadro clinico rese necessario il suo ricovero in ospedale. Il controllo delle crisi epilettiche con nuovi farmaci gli diedero un sollievo fisico e psicologico dando al suo talento artistico la possibilità di esprimersi al meglio.
Penso che José, un autistico e un semplice, possiede un tale dono per il concreto, per la forma, da essere a suo modo un naturalista e un artista naturale. Egli afferra il mondo come forme, come forme direttamente e intensamente sentite, che egli poi riproduce.
Oliver Sacks aveva sempre guardato l’uomo, non la malattia e anche in questo caso cominciò a domandarsi se fosse possibile per José un inserimento sociale come illustratore di testi di botanica o di erbari o di zoologia, addirittura potesse far parte di spedizioni scientifiche per disegnare esemplari di specie rare. Riconoscere la persona per le capacità e il talento avrebbe significato andare oltre le limitazioni, dando senso all’esistenza di ognuno.
Potrebbe fare tutto questo…ma purtroppo non farà nulla se non ci sarà una persona intelligente, che disponga di tempo e mezzi e sia pronta a guidarlo e a istradarlo in una vera attività. Perché, lasciato al suo destino, José probabilmente non farà nulla, trascorrerà una vita sterile e inutile, come tanti altri autistici, solo e ignorato, in un oscuro reparto di ospedale.
Nel 1995 pubblicò “Un antropologo su Marte”, raccolta di sette racconti, speciali “romanzi neurologici” in grado di lasciare un segno sia nella narrativa che nella saggistica scientifica. Nel capitolo che dà il titolo al libro sono presenti le storie di Stephen Wiltshire e Temple Grandin.
Incontrò il primo in Inghilterra verso la fine del 1987. Oliver Sacks rimase molto impressionato dai disegni dei monumenti, straordinariamente accurati nei dettagli, che Stephen, allora tredicenne, faceva da quando aveva sei anni. Gli bastava un semplice sguardo ed era in grado di riprodurre fedelmente l’immagine rimasta stampata nella memoria. Nei due anni successivi passò molto tempo con lui e la sua insegnante di disegno, accompagnandoli nei viaggi ad Amsterdam, Mosca, California e Arizona. Era affascinato dall’autismo che considerava una condizione e non una vera e propria patologia, anticipando di anni il concetto di neurodiversità.
È strano ma moltissime persone, quando parlano di autismo, si riferiscono solo ai bambini e mai agli adulti, come se a un certo punto – non si sa come – i bambini sparissero dalla faccia della Terra.
Si incontrò con diversi esperti, tra i quali Uta Frith che gli suggerì di conoscere Temple Grandin, una scienziata affetta da una forma di autismo ad alto funzionamento. Andò a trovarla alla Colorado State University dove lavorava. Il suo studio, ingombro di carte, non era diverso da quello di qualunque docente universitario. Temple Grandin cominciò subito a parlare del lavoro e dei suoi processi mentali. Aveva sperimentato un modo per semplificarsi la vita, rendendo ogni cosa più chiara ed esplicita. Si era costruita una biblioteca di esperienze, una collezione di videoregistrazioni sul comportamento delle persone in diverse situazioni. Questo gli consentiva di rivedere le scene più volte in modo da essere in grado di prevedere il comportamento altrui. Ciò che gli era difficile con gli essere umani, era molto più semplice con gli animali. Aveva una grande empatia per il bestiame e si considerava una persona che “vedeva dal punto di vista di una mucca”. Questo l’aveva portata a progettare strutture per un trattamento più umano di bovini e suini.
Importante è la distinzione che Oliver Sacks fece tra le due forme del pensiero – la paradigmatica e la narrativa – rifacendosi al lavoro di Bruner. Entrambe sono ugualmente naturali e innate nella mente umana nel suo sviluppo, ma quella narrativa viene per prima. I bambini amano le storie, le vogliono ascoltare e, tramite esse, sono in grado di comprendere argomenti complessi. Questo porta a considerare la lettura ad alta voce uno strumento educativo efficace anche in persone con ritardo cognitivo nelle quali il pensiero astratto è inesistente.
Nel 2005, mentre lavorava alla revisione del libro autobiografico “In movimento”, gli venne diagnosticato un raro melanoma ad un occhio. Si sottopose a sedute di radioterapia e laser che lo resero parzialmente cieco. Nove anni dopo il tumore aveva metastatizzato un terzo del fegato e i medici gli prognosticarono sei mesi di vita. Riuscì a terminare il saggio “La mia vita” che, insieme ad altri tre pubblicati sul New York Times, entrò a far parte del suo ultimo lavoro “Gratitudine”, pubblicato due settimane prima della sua morte.
Non posso fingere di non aver paura. A dominare, però, è un sentimento di gratitudine. Ho amato e sono stato amato; ho ricevuto molto, e ho dato qualcosa in cambio; ho letto e viaggiato e pensato e scritto. Ho avuto un contatto con il mondo, di quel tipo particolare che ha luogo tra scrittori e lettori. Più di tutto, sono stato un essere senziente, un animale pensante, su questo pianeta bellissimo, il che ha rappresentato di per sé un immenso privilegio e una grandissima avventura.
Gabriella La Rovere