Quanti piccoli lager per disabili psichici come a Cesate esistono in Italia?
Quanti “piccoli lager” esistono in Italia? Quanti luoghi di sevizia e reclusione di disabili psichici sono “camuffati” nelle nostre città? Quanti “regali” vengono fatti dalle istituzioni a persone senza etica e scrupolo che sulla prigionia e tortura della carne umana “non socialmente utilizzabile” organizzano il loro lucroso “core business”? Questo è solo l’ultimo caso, scoperto due giorni fa nella “civilissima” Lombardia. Non parliamo di disagio territoriale, di sottosviluppo culturale, di ambiente socialmente emarginato. E’ accaduto, come spesso accade, dove nessuno mai sospetterebbe possibile possa celarsi un inferno così bieco e crudele. E’ accaduto, accade in moltissimi posti simili, accade nell’omertà e nel silenzio complice di chi trasforma il disagio nel migliore degli affari possibili. Non sarà mai possibile illudersi che possa esistere un “dopo di noi” sostenibile con un contributo dello Stato fino a che sarà possibile regalare clientele e fare affari usando denaro pubblico sulla pelle dei cittadini più fragili. (GN)
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Umiliazioni e vessazioni, punizioni corporali, privazioni di cibo, e farmaci antipsicotici somministrati senza alcun titolo. Erano costretti a vivere così nove disabili psichici, ospiti di una comunità di accoglienza a Cesate in provincia di Milano, finita sotto inchiesta per i maltrattamenti e gli abusi che sarebbero andati avanti per anni.
A denunciare quanto accadeva nella «comunità degli orrori» è stata una operatrice che si è presentata dai carabinieri a Castellanza (Varese), ma una prima segnalazione su cui ora verranno approfondite le indagini era stata fatta dalla madre di una disabile ex ospite già nel 2005.
In manette sono finiti la titolare della struttura, N., 68 anni, e il figlio del suo ex socio, F., 25 anni, custode, entrambi ai domiciliari. Non potranno invece allontanarsi dal luogo di residenza tre operatori, indagati insieme ad altri due colleghi cui è stato sospeso l’esercizio della professione per sei mesi.
Vittime di angherie di ogni genere, come percosse, getti di acqua fredda, oggetti scagliati addosso e insulti costanti, erano uomini e donne di varie età, tutti costretti a lavorare per tenere in ordine e sistemare bucato e piatti, sotto la stretta sorveglianza di chi avrebbe dovuto aiutarli in un percorso di recupero, a suon di minacce.
Per costringerli a stare seduti a tavola in posizione perfettamente eretta, gli operatori del centro li costringevano a mangiare con bastoni infilati nella cintura e in una bandana legata alla loro testa. Chi non resisteva veniva costretto a saltare i pasti e guardare gli altri mangiare. Per dimostrare di essere riusciti a rimanere puliti, i disabili venivano costretti a sfilarsi la biancheria intima davanti a tutti e chi si lamentava veniva minacciato di subire il «metodo Anna», ovvero «un calcio nel c..o così forte che te lo sfondo».
In più di un’occasione i disabili sarebbero stati colpiti a schiaffi sul volto. Quando a seguito di una prima ispezione furono installate le telecamere per le indagini, coordinate dal pubblico ministero (pm) di Milano Rosaria Stagnaro, qualcuno degli operatori se ne accorse e, intercettato, decise che da quel momento non si sarebbero più usati i bastoni né visionata la biancheria in pubblico.
Tra una punizione corporale e l’altra, emerge dalle carte giudiziarie, c’erano farmaci antipsicotici somministrati su decisione della titolare, da personale non abilitato, senza che in struttura vi fosse neppure un infermiere e pure il tentativo maldestro di applicare un catetere ad un paziente. «Lei pregava per un pezzo di pane, si è spenta per colpa loro», racconta di una disabile una operatrice intercettata, «quante volte la trovavo a piangere in camera», e ancora, «docce fredde, finestre aperte e digiuno».
Le indagini non si fermano perché gli inquirenti vogliono controllare la segnalazione fatta dalla mamma di una giovane ospite 16 anni fa, pare ad un ente sanitario, finita chissà dove e che conteneva una descrizione dettagliata degli orrori. La donna nella sua relazione ha raccontato di essere andata a riprendersi la figlia dopo aver capito che qualcosa non andava e di averla dovuta portare in ospedale «dove le sono state riscontrate ecchimosi al volto ed ipotermia, oltre a evidenti rigonfiamenti alle caviglie tanto che non era stato possibile metterle le scarpe».
La titolare, si legge nelle carte, non avrebbe neppure provato a negare l’accaduto, dicendo alla madre della giovane che le punizioni servivano per far capire a sua figlia «che il mondo non gira come lei vorrebbe».