Buco Nero

Quanto è facile sparare su un bersaglio inerte

La giustizia social e le sue vittime

Non ci sono chiavi di lettura usuali per la notizia della ristoratrice trovata morta nelle acque del fiume Lambro. È un assurdo contemporaneo legata strettamente al sopravvento della realtà social sulle vite di persone comuni, che di mestiere non fanno l’influencer, che talvolta sono lambite dall’attenzione altrui, accanita e urticante, senza avere immaginato di aver fatto nulla per meritarselo.

Volendo seguire attraverso contrapposte narrazioni quello che è accaduto nei due giorni precedenti al suicidio, ci si ritrova a inseguire una pallina di gomma che rimbalza tra due pareti, con la desolante impressione di non poter andare oltre i confini del nulla, rappresentato da una realtà distorta, simile a quella che circoscrivono due specchi che si riflettono uno di fronte all’altro.  È così che su un moto perpetuo tra nuovi e vecchi media si fonda il contemporaneo e implacabile meccanismo della pubblica umiliazione.

 Tutto in questo caso inizia con la risposta esemplare di una ristoratrice al messaggio di un avventore razzista, ciò le procura fama nei media tradizionali. Si pronuncia una ministra, la sua lode rimbalza ovunque e la donna si guadagna celebrità totale e immediata oltre i confini angusti della sua cittadina.

Qualcuno che si è auto nominato guardiano della rettitudine digitale le telefona, la incalza su probabili incongruenze di font nel suo messaggio, lei non supera quell’interrogatorio fattole da uno sconosciuto (suo quasi collega tra l’altro) e questi rivela sui social il possibile artificio che nasconderebbe quel mirabile esempio di civiltà.

 L’eroina del ben pensare diventa per l’esercito dei combattenti in rete una simulatrice, che voleva ammantarsi di virtù attraverso un vergognoso inganno. La televisione pubblica si butta sulla notizia, registra l’incertezza della signora nel replicare. Dalla video intervista spicca il volo la clip dell’imbarazzo, si anima sui social e diventa una prova di colpevolezza. Esplode la bomba del disprezzo sui social e si frammenta nei media tradizionali. La donna si uccide.

Tv e giornali si precipitano sotto casa della ristoratrice per sentire i parenti. La figlia scrive sui social: “Siamo assediati dai giornalisti.  Qualcuno li mandi via”. Gli amici sui social pubblicano lo screenshot della sua richiesta d’aiuto. Parte l’invito di andare nella zona della pizzeria “a dar man forte alla famiglia”.

È una catena infinita che continuerà ancora per giorni a infiammare le tastiere e motivare stand-up per i talk di pomeriggio e sera. Io stesso sto qui scrivendone.

Sarebbe tutto lecito e farebbe parte del gioco se non ci fosse una persona che si è uccisa.

Possiamo cercare ogni giustificazione di stati d’animo pregressi in un gesto simile, resta il fatto che si è uccisa dopo che la sua reputazione era, nel giro di un giorno, scesa dalle stelle alle stalle, per un post, forse maldestro, che comunque non aveva portato danno alcuno.

 Non tutti sono così robusti e strutturati per reggere un colpo simile. Non lo era nemmeno Umberto Re di 78 anni che a fine novembre si è sparato alla testa, perché i suoi concittadini lo avevano bombardato di sarcasmo sui social per una sua iniziativa teatrale non proprio riuscita. Sono due casi, a distanza di nemmeno due mesi, in cui persone adulte che non sono riuscite a gestire la nuova realtà di un redde rationem sul proprio quotidiano. Un osservare costante, impietoso, continuo, attimo dopo attimo, a cui potrebbe essere sottoposta ogni loro possibile azione, parola, espressione.

Un professore universitario mi dice che da quando i suoi studenti registrano le sue lezioni deve stare attentissimo anche ai respiri, a volte basta una parola, un’immagine, una possibile incertezza o refuso nell’argomentare. In un istante si trasforma in un meme, è subito postato e condiviso e il rischio è quello di vedere infangati anni di pubblicazioni e meriti accademici. Non gli è più consentito l’involontario esercizio dell’umana veniale disattenzione, davanti a sé ha centinaia di implacabili studenti-giudici pronti a sparargli addosso.

È questo un fenomeno che quasi dieci anni fa il giornalista Jon Ronson descrisse nel suo “I giustizieri della rete” (ed. Codice 2015). Leggiamo i casi significativi di persone che hanno avuto le vite rovinate, solo perché qualcuno si è preso il diritto di condannarli ed esporli a una gogna che immancabilmente ha provocato danni irreversibili nelle loro vite, semplicemente trasformando dettagli, sicuramente discutibili, in esempi di male cosmico. Come è noto la giustizia sommaria appassiona e coalizza proseliti.

In Italia ci stiamo facendo i conti ora, dopo le filippiche spesso più che motivate, sui rischi digitali per le giovani generazioni, ci stiamo accorgendo che anche gli adulti sono altrettanto sprovvisti di strumenti per gestire correttamente l’espansione delle loro vite su una perenne ribalta.

Non ci si illuda che saranno le vittime per una società migliore, più giusta più trasparente. Non c’è volontà di ricostruire un’etica in un mare magnum in cui ognuno può esprimersi, giudicare, argomentare. Non c’è sincero desiderio di stabilire regole di correttezza, si spara con la cerbottana carica a conetti di carta, come i bulli alle elementari che dicono: “che sarà mai è solo uno scherzo!”. Senza riflettere che a qualcuno il missile di carta scivola addosso e nemmeno ci fa caso, ma a qualcun altro potrebbe cavare un occhio.

Nessuno riuscirà a convincermi che ci sia un genuino desiderio di giustizia nell’esercizio capillare della delazione costante e implacabile delle manchevolezze altrui, reali eclatanti gravi che siano, o solamente veniali cedimenti alla vanagloria di sentirsi apprezzati.

Chi colpisce lo fa solo contando sul rimbalzo. Chi ha abbattuto a colpi di tastiera voleva dimostrare che i media mainstream non sanno fare il loro lavoro. Come chi, per risposta, incarica il social media manager istituzionale di colpire a proprio nome chi ha colpito, non per compassione di una fragilità evidente, piuttosto per dimostrare che l’ideologia woke è fondata sull’ipocrisia, che il giustizialismo è perverso, solo però se tocca i tuoi amici.

È la parte infame che alberga in tutti noi che finalmente può esercitarsi al tiro al bersaglio contro chi detestiamo, invidiamo, disprezziamo. È la solita triste antica rivalità tra bande che continua a combattersi con somma ipocrisia e ostentato cinismo attraverso armi immateriali, sappiamo chi è il nemico e umiliarlo e sputtanarlo è il fine supremo, qualche volta ci lascia la pelle chi passava per caso ma è considerato un danno collaterale. Qualcuno riuscirà a giovarsi persino di questo. (LA STAMPA 16/GENNAIO/2024)

Gianluca Nicoletti

Giornalista, scrittore e voce della radio nazionale italiana. E' presidente della "Fondazione Cervelli Ribelll" attraverso cui realizza progetti legati alla neuro divergenza. E' padre di Tommy, giovane artista autistico su cui ha scritto 3 libri e realizzato due film.

Lascia un commento

Pulsante per tornare all'inizio