Come nell’opera di Borges trapeli la neuro divergenza
Tre volte provai a scrivere questo racconto. “L’immortale” di Jorge Luis Borges apparve nel 1947 dopo un lungo travaglio creativo. Sembra che i primi tentativi di redazione siano antecedenti al 1942, data di pubblicazione di “Funes, o della memoria”, ormai riconosciuto come prodotto letterario di una mente neurodivergente in cui anche il protagonista lo è.
Credo di aver scritto L’immortale prima di Funes. È importante lo stretto legame tra i due racconti, come se un pensiero (o una visione) prendesse maggiore forza e si affermasse. Il tema principale che viene analizzato è l’immortalità. Essere immortale è cosa da poco: tranne l’uomo, tutte le creature lo sono giacché ignorano la morte; la cosa divina, terribile, incomprensibile, è sapersi immortali.
La storia racconta di un tribuno militare romano – un certo Marco Flaminio Rufo il cui nome comparirà solo al secondo capitolo – che incontra un cavaliere proveniente da Oriente, alla ricerca della Città degli Immortali che sorge sulla riva dell’omonimo fiume. Incuriosito dalla storia, il tribuno decide di partire insieme a 200 soldati. Ben presto il caldo afoso del deserto, che li costringe a camminare di notte togliendo ore al riposo, nonché l’aleatorietà dell’impresa, portano a rivolte e alla diserzione di gran parte dell’esercito. Sebbene minacciato dai suoi sottoposti, il tribuno prosegue il suo cammino insieme ad un piccolo gruppo di soldati fedeli.
Attraversa il paese dei trogloditi, che divorano serpenti e sono privi dell’uso della parola; quello dei garamenti, che hanno le donne in comune e si nutrono di leoni; quello degli augili, che venerano solo il Tartaro. Ferito, stremato dalla stanchezza, Marco Flaminio Rufo ha delle allucinazioni. Quando si riprende, scopre di trovarsi all’interno di una nicchia di pietra scavata sul fianco di una montagna. Sotto di lui scorre il Fiume dell’Immortalità e di fronte la Città tanto agognata. Essa sorge su un altipiano di pietra, anche questa con delle piccole rientranze nelle quali alloggiano i trogloditi.
Alla ricerca di fresco, il tribuno penetra in una caverna e si ritrova rapidamente sprofondato in una stanza circolare da cui partono dei corridoi labirintici, la maggior parte dei quali riporta alla stanza di partenza. Tutto quindi senza senso, come gli strati che egli si trova ad attraversare per ritornare in superficie. Scorgevo capitelli e astragali, frontoni triangolari e volte, confuse pompe del granito e del marmo. Comprende perciò che la costruzione di questa città è avvenuta nei secoli, addirittura si perde nella notte dei tempi. All’inizio egli sembra affascinato dal palazzo nel quale è precipitato – questo palazzo è opera degli dèi, pensai in un primo momento – ma la mancanza di senso lo atterrisce portandolo a dire: gli dèi che lo edificarono erano pazzi.
Quando riesce ad uscire da questa esplorazione diventata incubo, trova ad attenderlo uno dei trogloditi, individuo non verbale. Stava sdraiato sulla sabbia, dove goffamente tracciava e cancellava una fila di segni. Il tribuno ne è incuriosito, pensa che questi segni abbiano un significato, ma probabilmente non ce l’hanno. È proprio qui che diventa chiaro il collegamento che unisce i due racconti, il lavoro raffinato dello scrittore per descrivere la tribù dei trogloditi, ossia delle persone neurodivergenti.
L’uomo le tracciava, le guardava e le correggeva. Di colpo, come se il gioco l’annoiasse, le cancellò col palmo e l’avambraccio. Mi guardò, non parve riconoscermi. Ecco lo sguardo vuoto e sfuggente che ha riempito pagine di lavori scientifici sull’autismo, che è stata causa di delusione e frustrazione nei genitori alla ricerca del riconoscimento e della normale reciprocità.
Il tribuno decide di insegnargli qualche parola e, soprattutto, di dargli un nome – Argo – spostandolo così dalla condizione di troglodita a quella di essere umano. Inevitabilmente il pensiero non può che correre a Jean Itard e al primo atto che compie quando si trova davanti il ragazzo selvaggio dell’Aveyron: chiamandolo Victor lo inserisce a pieno diritto tra gli altri esseri umani. Attualmente, con lo sviluppo delle neuroscienze, il termine umanità è stato sostituito da neurodiversità, condizione che unisce la neurotipicità e la neurodivergenza.
Nonostante ogni sforzo, Argo non parla e il protagonista, che non vuole darsi per vinto e che è comunque certo che alla fine parlerà, giustifica questo fallimento affermando ch’è fama tra gli etiopi che le scimmie non parlino di proposito, per non essere obbligate a lavorare. Come un genitore con figlio autistico non verbale, Marco Flaminio Rufo vive nell’illusione che, prima o poi, possa risvegliarsi da un incantesimo o possa ritornare il bambino portato via dalle fate.
Nel racconto Argo appartiene ad una tribù, cioè ad un gruppo con medesimo linguaggio, con stesso modo comunicativo. Non si parla di stranezza, come espressione di patologia sottostante, ma di modo di essere, anticipando così di 70 anni quanto affermato nel libro “Neurotribù” di Steve Silberman che ha rappresentato una pietra miliare nella storia dell’autismo.
Pensai che Argo e io facevamo parte di universi differenti: pensai che le nostre percezioni erano uguali, ma che Argo le combinava diversamente e costruiva con esse altri oggetti. È proprio in questa frase la descrizione della neurodivergenza come condizione nella quale tutto funziona, anche se in modo diverso, non patologico. Pensai che forse per lui non esistevano oggetti, ma un vertiginoso e continuo gioco di impressioni brevissime. È indubbia la consapevolezza dell’autore in merito a quanto scritto, probabilmente perché vista e sperimentata. Lo sguardo che cattura immagini come scatti fotografici consentendo il ricordo preciso e l’eventuale riproduzione grafica con assoluta fedeltà. Riaffiora la storia più recente di Stephen Wiltshire, persona autistica, più propriamente definita idiot savant, che Oliver Sacks così descrive nel libro “Antropologo su Marte”: Non aveva bisogno di alcun aiuto mnemonico, né di schizzi o appunti: gli bastava posare sullo scenario uno sguardo obliquo, senza indugiarvi più di qualche secondo. Lo sguardo obliquo che appare un’aberrazione, ma che probabilmente unisce la funzione “altra” della visione alla protezione per un’estrema sensibilità sensoriale, ormai assolutamente accertata scientificamente.
Nel racconto, la vita scorre senza alcuna modifica o imprevisto finché una notte piovve, con lentezza possente. Accade quindi qualcosa che interrompe la monotonia, la routine che tranquillizza e, come reazione, i trogloditi sono costretti ad interagire con l’esterno: si mettono, perciò, sotto l’acqua. Lo stesso Argo sembra felice fino alle lacrime e comincia a parlare usando frasi udite e che risultano fuori contesto. Quello stesso giorno il tribuno comprende che i trogloditi sono gli Immortali e che la città era stata rasa al suolo. Coi suoi resti avevano eretto, nello stesso luogo, l’insensata città che avevo percorso. Gli Immortali avevano perciò deciso di non abitarci più, ma di vivere nel pensiero, nella pura speculazione.
Il racconto è famoso per le riflessioni sull’immortalità. Rufo, bagnatosi alle acque del fiume, vive l’immortalità fino ad arrivare al 1921 quando, giunto per nave sulla costa eritrea, si ferma a bere un sorso d’acqua da un piccolo fiume. Ritorna, perciò, ad essere mortale riuscendo a dormire sonni tranquilli in quanto libero dalla maledizione di vivere in eterno.
Lo sviluppo delle neuroscienze e la maggiore comprensione dell’autismo consentono di ampliare la chiave di lettura di alcuni capolavori della letteratura mondiale caratterizzati da uno stile molto particolare, che li accomuna. Le fonti biografiche consentono di tracciare il profilo dell’autore e di ipotizzare una neurodivergenza che permette di comprendere meglio tutta l’opera artistica. È sicuramente una svolta importante nella critica letteraria questo connubio tra scienza e arte, tra medicina e filologia.
Gabriella La Rovere