Marina si chiede se al teppautistico Luca freghi veramente qualcosa di una medaglia al collo…
Siccome l’anno scorso, per pigrizia, non sono andata a vedere Luca partecipare alle Special Olympics, ieri, sotto il sole bollente delle dieci del mattino, sono arrivata alla Natick Regional High School, che quest’anno ospita l’evento nella sua nuovissima struttura sportiva. Dato il caldo, ho deciso di mettermi un vestitino estivo, che però francamente si può indossare solo con quei sandaletti con il tacco presi l’anno scorso, quelli scontati del 40%.
Ho lasciato la macchina nel parcheggio riservato ai visitors e ho chiesto a due studentesse che passavano di lì di indicarmi dove andare. Mi hanno dato le indicazioni per un posto che sembrava lontanissimo da dove stavamo, ma mi hanno fatto sapere che lo potevo solo raggiungere a piedi, per via del parcheggio. Mi sono avviata, un po’ di fretta, con i tacchetti che scalpitavano con il loro ticchettìo sull’alsfalto rovente.
Arrivata alla pista di atletica, invece di vederla piena di ragazzotti sportivi che si allenano a correre o a fare il salto in lungo, era occupata da una decina di scuole per ragazzotti autistici che, annoiati e accaldati, aspettavano il loro turno per gareggiare. Ho trovato quasi subito il gruppo della Crossroads, la scuola di Luca, e ho adocchiato Luca da lontano. Era seduto su una coperta messa sul prato, circondato da una terapista e una ragazza giovane che non avevo mai visto, che ho scoperto essere una studentessa della High School, che si era offerta di fare la volontaria per assistere uno studente disabile alla gara. Mi ha commosso moltissimo questo fatto, e mi sono subito resa conto che di ragazzi come lei era pieno il campo sportivo. Bellissimo.
Appena mi ha visto, Luca è scappato, seguito dalle sue due ragazze. Fa sempre così: non riesce a capire che i suoi due mondi, cioé quello di casa e quello della scuola, a volte possono anche incontrarsi. Cercavano di calmarlo a botte di patatine, e a convincerlo di venire da me, cosa che infatti, alla settima patatina, è successa: mi ha finalmente accolto a braccia aperte, chiedendomi di cantargli la sua canzoncina.
Ho poi guardato verso i suoi compagni, tutti quasi addormentati sotto il sole cocente, e ho pensato che chissà quanti di loro avessero capito il perché di tutto questo. Mi sono chiesta, retoricamente, a quanti di questi ragazzini davvero interessasse partecipare a questo evento, a quanti battesse il cuore dalla tensione per l’imminente gara. Mi sono anche risposta: a nessuno, a meno che si fossero messi d’accordo per nascondere le loro emozioni.
Poi è stato chiamato Luca: era arrivato il suo turno di tirare la pallina da tennis, tre volte. Abbiamo dovuto litigare perché l’Ipad in questi casi non si può portare: avete mai visto un atleta che si presenta a gareggiare con l’iPad? Finalmente, poco convinto, ci ha seguito con la sua flemma che in casi di gare sportive, fa anche molto ridere. Insomma, ha tirato queste palline con l’entusiasmo di uno che sta andando al patibolo, si è fatto mettere una medaglia al collo e, con un entusiasmo rinnovato, è corso verso il suo iPad. Poi è iniziata un’ora di attesa prima di partecipare alla sua seconda gara: 50 metri di camminata, e chi arriva prima o anche chi arriva per ultimo (lui terzo su quattro, per la cronaca), un’altra medaglia. Finita con l’entusiasmo simile a quella di prima, finalmente ce ne siamo andati verso la macchina, lui con le sue medaglie al collo e io con i miei tacchetti che facevano un male pazzesco.
Non sono riuscita a capire, e ci penso da ieri, se far partecipare Luca e i suoi compagni a un evento del genere sia una cosa positiva o no. Da una parte, penso che siano tante le cose che persone come Luca non capiscono, ma che gli facciamo fare: il letto, mettersi le mutande quando arriva gente, mangiare con la forchetta. Per cui, voglio dire, ci sta che lo facciano partecipare a un evento bello, interessante, anche se lui non sa bene come comportarsi. Poi però mi dico: ma perché? Perché fargli fare una cosa che a lui, chiaramente, non interessa, se non ne ricava nulla se non una scottatura dal sole troppo caldo? Perché fingere di celebrare una sua vittoria, se lui non capisce neanche il motivo di tanto entusiasmo attorno a lui?
Non sono domande retoriche: continuano a frullarmi nella testa perché non sono stata ancora in grado di rispondermi. Mi sa che sono di quelle da mettere in quella lunghissima lista che ho di dubbi su come sia meglio reagire a una realtà che mi stravolge, ormai da anni, ogni certezza che credevo di avere all’inizio di questo stranissimo viaggio con Luca e con il suo misterioso autismo.
MARINA VIOLA
http://pensierieparola.blogspo
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- Questa è la sua storia: dal 1991, da quando cioé ha deciso di vivere con il suo fidanzato Dan. La loro prima casa era nel New Jersey, dove ha preso una minilaurea in grafica pubblicitaria. Ha tre figli: Luca, che ha quasi diciannove anni, ha una forma abbastanza drammatica di autismo e una forma strana di sindrome di Down; Sofia, che ha sedici anni ed è più bella di Liz Taylor, è un genio del computer e prende sempre cinque meno meno in matematica; Emma, che di anni ne ha solo otto, ma che riempie un silos con la sua personalità. Marina Viola odia le uova perché puzzano, ma per un maron glacé venderebbe senza alcun senso di colpa tutti e tre i figli. Ha una laurea in Sociologia presso Brooklyn College, l’università statale della città di New York. Da qualche anno tiene unblog in cui le piace raccontare alcuni momenti della sua vita. Ha scritto settimanalmente sul sito della Smemoranda (smemoranda.it) dell’America vista però in modo sarcastico e ironico.
A giugno del 2013 è uscito il suo primo libro, “Mio Padre è stato anche Beppe Viola”, edito da Feltrinelli. Nel suo secondo, “Storia del Mio Bambino Perfetto” (Rizzoli, 2014) racconta di Luca e dell’autismo.