I nostri figli autistici sono liberi di autodeterminarsi?
Rose Hughes, 20 anni, ha preso una decisione importante: farsi sterilizzare . “Sono Asperger, e sebbene molte persone con autismo siano dei buoni genitori, non mi sento di appartenere a questo gruppo. Semplicemente non ho la predisposizione per prendermi cura di un altro, ma allo stesso tempo ho voglia di una vita sessualmente soddisfacente”. Questa affermazione mi ha portato a riflettere sul concetto di autodeterminazione che generalmente applichiamo a noi stessi, fortunati normotipici, e non contempliamo per i nostri figli disabili, nonostante ci impegniamo giornalmente in battaglie ideologiche affinché vengano riconosciuti come persone.
È un controsenso combattere per una consapevolezza sociale sui diritti sanciti dalla Convenzione Onu e allo stesso tempo soffocare ogni loro azione o aspirazione. Noi genitori siamo i primi a indirizzare le loro scelte, in genere verso quelle con minore impegno fisico e mentale. Convivere con il disagio psichico prosciuga ogni energia e, quando si supera la boa della mezza età, si guarda con invidia i coetanei che godono di una ritrovata tranquillità, tra passeggiate, cinema, teatro, incontri con gli amici. Sarebbe invece opportuno compiere l’ultimo grande sforzo: quello di dare inizio alla vita indipendente, intesa non solo come posto dove stare quando non ci saremo più, ma anche come forma mentale.
L’uomo è un animale che agisce, dove per azione si intende non solo il concatenarsi fisiologico di movimenti sinergici e ben integrati, ma la spinta finalizzata ad un obiettivo. Questa spinta all’agire autodeterminato caratterizza tutti gli individui, indipendentemente dalle loro abilità e competenze. Avere delle limitazioni non significa essere totalmente incapace di incidere sul proprio ambiente per orientarlo verso le scelte personali.
Quando si parla di autodeterminazione si fa riferimento all’autonomia comportamentale, cioè il prendersi cura di sé, l’agire in maniera autonoma secondo le proprie preferenze, le abilità, gli interessi. È vero che le persone con disabilità mentale hanno minore capacità di autodeterminarsi rispetto a coetanei senza alcun problema psichico, ma è altrettanto vero che questa consapevolezza del sé possa essere favorita da un ambiente che enfatizzi l’autonomia e le scelte.
Le strutture socio-riabilitative attualmente presenti sono in massima parte finalizzate ad occupare passivamente la giornata, senza dare la possibilità di far decidere, in un’ampia gamma di offerte, cosa sia meglio. Si tende a uniformare l’utenza così che sia semplice per gli educatori fare il loro mestiere.
Un atteggiamento che può essere compreso in un genitore, prosciugato psichicamente, ma che è inconcepibile in chi ha scelto di farlo come lavoro e per il quale prende uno stipendio. Alle tante belle parole, corrispondono sempre i pochi fatti e la scusa delle scarse risorse destinate al sociale ormai non convince più. A smascherare i furbetti di turno sono le iniziative portate avanti da genitori che creano attività diversificate, che puntano sulle abilità per creare un futuro in grado di mantenersi autonomamente.
Il lungo cammino dell’autodeterminazione passa la conoscenza dei limiti. La normale frustrazione viene superata dalla consapevolezza delle proprie straordinarie abilità che devono avere un riscontro obiettivo inequivocabile e un riconoscimento sociale, anche in termini economici. Bisogna scommettere sulla possibilità delle persone con disabilità di essere dei lavoratori capaci, se non migliori degli altri. Il lavoro per finta è un gioco dell’infanzia, non è concepibile per un adulto. Avere un lavoro remunerato è un altro grande stimolo al cosiddetto empowerment psicologico, ulteriore gradino alla crescita personale.
Ecco quindi aperta la porta alla vita indipendente, frase che solitamente usiamo per i nostri figli disabili ma che, a ben guardare, non è così diversa da tutte le strategie che abbiamo messo in atto per i nostri figli normotipici.
Gabriella La Rovere